« Le nostre 48 ore di rivoluzione »

«Così ho organizzato Vattacco al Soviet» « Le nostre 48 ore di rivoluzione » Iferiti dei due schieramenti raccontano TRA CIMITERI E OSPEDALI MOSCA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Aveva 18 anni, povero Kirill, una faccia sveglia e un ciuffo di capelli neri, come vediamo dalla grande foto che sua mamma tiene disperatamente fra le mani, ai piedi di questa povera bara di legno sottile, ricoperta di carta crespata rossa e nera. Ecco lì la sua faccia, adesso. E' magra, bianca, gli occhi sono scavati, sulla guancia sinistra ci sono i due fori neri dei proiettili che l'hanno mandato all'altro mondo, lunedì mattina, ore 12 circa, alla Casa Bianca. Non faceva politica, Kirill Matiukhin. Era andato ad assistere allo spettacolo insieme al suo amico Roman, che adesso ci racconta questa storia, davanti alla fossa, nel cimitero di Khovanskj, in mezzo al fango e tra le foglie gialle delle betulle. «Era accanto a me, è caduto senza un grido, quasi non me ne sono accorto. L'ho chiamato, gli ho detto: "Kirill, guarda". E lui aveva già gli occhi girati dall'altra parte». Davanti alla bara aperta, secondo il rito, parla lo zio: «E' colpa di tutti i politici che ci hanno portato in una situazione in cui i nostri ragazzi possono morire». Parla la sua insegnante: «Scusami se qualche volta sono stata severa: eri un bravo ragazzo». Parla il padre di un suo amico: «Sarai sempre nella nostra anima». Gli mettono un pacchetto di sigarette Marlboro nella bara, una scatola di fiammiferi, della polvere di terra sul corpo, gli baciano la fronte. Poi la bara scende nel fango. Silenziosamente, separatamente, quasi clandestinamente si seppelliscono i morti e si ricompongono i sentimenti, dopo i tre giorni di follia di Mosca. E non tutti i morti sono uguali. I forni crematori di Khovai/ski vanno a tutto regime per incedi" < ire i corpi sconosciuti: finora sono 49. Ma il conto non è chiuso, nell'incredibile confusione di Mosca non si è ancora nemmeno capito quante persone sono decedute: almeno 200. All'ospedale Sklifosovskij si cuciono le ferite, del corpo e dell'anima. Qui, al reparto traumatologia, settimo e ottavo piano, ci sono i feriti dell'una e dell'altra parte. Sono così tanti che non s'è fatto a tempo a distinguere. Un cappellano ortodosso con la barba lunga parla con ognuno di loro e li benedice tutti. Nella stanza numero 15, per esempio, c'è un deputato che era chiuso dentro la Casa Bianca e un militare della divisione Dzerzhinskij che ha dato l'assalto al Parlamento. Separati dal letto neutrale di un vec- chietto che s'è rotto una gamba cadendo per le scale, mangiano la razione serale di formaggino senza incrociare i loro sguardi. Il deputato si chiama Vakif Fakharutdinov, ha 43 anni, ex operaio, viene dal Tatarstan. Ci guarda dal profondo di due occhi così neri che sembra si sia passato il lucido per le scarpe intorno alle orbite. Ha un braccio rotto, due costole fratturate, una ferita sul costato che spurga sangue in un sacchetto di plastica. «E' successo quando ci siamo arresi. Eravamo in quindici, siamo usciti dalla Casa Bianca protetti dai soldati della brigata Alpha. Ci hanno detto che non ci avrebbero fatto niente, ma quando siamo stati fuori, ci hanno fatto correre a sinistra, ci hanno buttato su un pulmino e hanno cominciato a picchiare...». Fakharutdinov racconta poi una notte di terrore, sbattuto da una caserma all'altra della milizia di Mosca, e ad ogni trasbordo la minaccia degli Omon: «Adesso vi fuciliamo...». Perché s'è arre¬ so? «Ho moglie e figli». Il soldato Viktor si aggiusta la gamba ferita. Ha 19 anni, viene da Perm, è militare di leva. E' rimasto dieci giorni lì intomo al Parlamento. Cambio di turno ogni tre ore: «Fino a domenica sera eravamo disarmati. Solo il manganello. Quando ci hanno attaccati, alle 2 del pomeriggio, non sapevamo cosa fare. Nessun ordine, mi hanno piacchiato, non capivo quello che succedeva». Viktor è stato ferito di notte, i cecchini gli hanno sparato dall'altra parte della strada, un proiettile l'ha preso al polpaccio che ora ci mostra gonfio come un pallone. Paura? «Tanta». Cosa gli è rimasto? «La nausea, mi sembra di aver vissuto per dieci giorni in una gabbia di matti». Alla stanza 17 c'è un giovanotto biondo e, nonostante tutto, allegro. Si chiama Kirill, ha 23 anni, fa il contabile in un'azienda. Ha un gesso spropositato che gli avvolge tutta la gamba sinistra: «Mi sono preso due proiettili, ho le ossa rotte». Kirill è uno di quel¬ li che hanno dato l'assalto alla sede tivù di Ostankino. E' comunista. «Eltsin aveva appena finito di parlare annunciando lo scioglimento del Parlamento e insieme ai miei amici siamo andati alla Casa Bianca. Sono rimasto lì tutti questi giorni. Domenica abbiamo fatto la manifestazione all'Oktjaberskaja, quando siamo arrivati alla Casa Bianca, ho sentito Rutzkoi che diceva di andare ad Ostankino». In metropolitana, Kirill e i suoi amici, sono andati all'assalto. «Non avevo armi», dice con un sorriso che potrebbe celare una bugia. «Ci sembrava di fare una cosa grande, eravamo un po' esaltati, tutti insieme eravamo presi da una specie di euforia...». E adesso cosa pensa? «Che era giusto andare ad occupare la televisione bugiarda, ma che è stata una stupidaggine spararsi addosso. Ma non dò la colpa a nessuno: ho scelto io di andarci e là ritornerei». Cesare Martinetti «Scende nella terra la bara di Kirill aveva solo 18 anni, due pallottole l'hanno colpito davanti al Soviet» Sopra, un fotografo americano ferito durante l'assalto della sede televisiva a Ostankino A sinistra, un gruppo di ribelli porta via un cadavere dalla Casa Bianca, il giorno del blitz

Persone citate: Cesare Martinetti, Dzerzhinskij, Eltsin, Kirill Matiukhin, Omon, Rutzkoi

Luoghi citati: Mosca