IL PAPA CON L'IRA DI MOSE
Il censore in redazione IL PAPA CON L'IRA DI MOSE' ta e immiserita nel suo voler stare fuori di Dio e delle sue leggi, è ciò che dà Io spasimo a Wojtyla ed egli sceglie il lamento dei profeti biblici e il grido apocalittico per esprimerlo. Anche questa enciclica spasima. L'orizzonte contemplato da Wojtyla nella sua lettera è quello drammatico delle affermazioni sopra riportate: una visione che potrà essere rifiutata o irrisa o lasciata cadere nell'indifferenza, ma che è colma di ansia a causa della insensibilità morale del mondo. «Sono pieno di inquietudine per la sorte terrena ed eterna degli uomini e dei popoli», ha detto una volta Wojtyla. Ed ecco, allora, il Papa a proporre la «verità» della dottrina morale cattolica, così come sente di averla ricevuta in deposito nella Chiesa di cui è a ca¬ po. La propone intatta, così come gli è stata tramandata, preoccupato che non sia contaminata dal di fuori o dall'interno stesso della Chiesa. Non ha timore di presentarla con la terminologia e con l'impianto tradizionale e popolare con cui ha attraversato la cristianità nei secoli: i Comandamenti, la legge naturale nel cuore di il'uomo, il peccato mortale e veniale, l'anima e il corpo, la coscienza, la salvezza eterna... La tutela di questo patrimonio morale, «messo oggi in discussione globale e sistematica», è per Wojtyla difesa non solo della verità cattolica, ma prima di tutto dell'uomo e della sua razionalità. Già tredici anni fa, nel suo viaggio in Germania, nello scenario grandioso della splendida cattedrale di Colonia, gremita di studenti e di docenti universitari, aveva rivendicato questo ruolo. «In epoca passata», aveva detto, «si è combattuto contro la Chiesa inalberando il vessillo della ragione. Oggi, di fronte alla crisi di senso, i fronti si sono inverti¬ ti. Oggi è la Chiesa che prende le difese della ragione». Perciò, l'enciclica non scende nei particolari di una pratica di vita, non disquisisce su temi di etica sessuale e coniugale, su cui molti l'attendevano al varco. Non entra nell'area della prassi pastorale, dove Wojtyla sa bene che c'è da lasciare libera circolazione alla comprensione umana e alla misericordia di Dio. Si dà cura, invece, di esporre «con una certa ampiezza» (è la prima volta che lo fa un Papa, scrive !o stesso Wojtyla) gli elementi fondamentali della dottrina morale e di vagliare le tendenze che li intaccano. Se vengono toccati di passaggio alcuni punti specifici, è solo in funzione di questo orientamento. Lo spazio più ampio dell'enciclica è occupato dalla esposizione della dottrina cattolica tradizionale e poi dall'esame critico e negativo delle tesi e dei tentativi che man mano vorrebbero accreditare il relativismo morale, formulare l'etica in base ai sondaggi di opinione, eliminare o attenuare la re¬ sponsabilità delle coscienze, negare l'oggettività del peccato... Forse la grande preoccupazione di Giovanni Paolo II, allo scadere dei quindici anni del suo pontificato, è quella di non farsi caricare della responsabilità di non aver posto un argine, dottrinalmente, ai relativismo morale galoppante nel nostro secolo. Sono gli uomini che devono cambiare, non i precetti divini, è l'incitamento di Wojtyla. «Homines per sacra murari fas est, non sacra per homines», si diceva già al quinto Concilio lateranense. La rigidità quasi patetica di Wojtyla e della sua enciclica, che non riconduce elementi di valore nelle tesi che combatte, anche se ammette una buona intenzione nei loro autori, è protesa unicamente a voler far risplendere una Verità immutabile: «Veritatis splendor». E non importa se il mondo la rifiuta. «Nessuno è obbligato a seguire la via della Chiesa», ha detto un giorno, «ma è mio dovere proporla, in qualità di messaggero della salvezza in Gesù Cristo, redentore dell'uomo». In fondo, è sempre la stessa ansia di Wojtyla, angustiato per il vuoto di Dio, e quindi di morale, che c'è nel mondo. Egli vuol spingere il mondo ad aver nostalgia di Dio. Il suo sogno è che Dio sia ancora familiare alla Terra, come nei giorni dell'antico popolo di Israele, quando gli uomini erano sempre robusti peccatori, ma Jahvé ragionava con Abramo, affrontava il lamento di Giobbe, chiamava Mose sul Sinai e sussurrava nel vento a Elia. Il suo sogno è che ogni cristiano, debole sempre e povero, senta Gesù che gli cammina accanto, come quando, dopo la risurrezione, prese Pietro, che lo aveva rinnegato ai canto del gallo, e lo condusse senza un rimprovero lungo la riva del lago di Galilea. Tre volte lo aveva rinnegato Pietro, tre volte gli fece fare una dichiarazione: «Tu lo sai, Signore, che io ti amo». Domenico Del Rio
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