Khasbulatov si accascia: è tutto finito

4 Le ultime ore del parlamento fianco a fianco con i leader ribelli: «Vogliono ammazzarci tutti» Khasbulatov si accascia: è tutto finito / colpi scuotevano i muri ma Rutzkoi non batteva ciglio SEGUE DA PAGINA 1 Ha cominciato a dire che il regime ormai è caduto, che lui ne era sicuro al 100 per cento e che nessuno doveva temere nulla. Anche se qualche deputato si è fatto scappare minacce «non bisogna badarci, tutti devono capire che noi costruiremo il nostro potere con la legge, ma, certamente, molte cose vanno cambiate». Davanti a me c'era un dirigente dello Stato salito al vertice supremo del potere, e non faceva niente per nasconderlo. Ha aggiunto qualche frase cortese e poi mi ha detto: «Trasmetti alla tua agenzia che noi non ci vendicheremo di nessuno, ci rendiamo conto che molti si sono messi con questo regime criminale per errore». La sera di domenica è arrivata la notizia che Rutzkoi si sarebbe messo in contatto con il ministro dell'Interno Ierin per scusarsi per l'assalto a Ostankino. Io sono tornato all'ufficio di Rutzkoi, stavolta mi hanno fatto entrare subito, ma lui non c'era. Ho parlato con il suo aiutante: «E' tutto un bluff, chi ci parla ormai con questo Ierin». Per loro era ormai un ex ministro. Alla domanda dove stava Rutzkoi mi è stato fatto capire che era andato nelle caserme delle truppe fedeli a lui. Khasbulatov aveva già detto al Congresso che distaccamenti fedeli al Parlamento si stavano avvicinando a Mosca e avevo pensato che le cose stavano veramente così. Dopo qualcuno mi ha detto che Rutzkoi era tornato ma che non era andato nelle caserme. Non ho chiesto dove era stato. Ho visto come stava attraversando in fretta, a passi larghi il corridoio. Mi era sembrato in preda all'euforia ma più tardi, quando lo dissi a uno degli aiutanti di Khasbulatov, mi rispose: sì, è sicuro di se ma l'euforia non c'è più. Poi ho capito il perché: lui era forse l'unico a sapere che le truppe fedeli a lui in realtà non esistevano. Ma loro erano comunque convinti che l'assalto era impossibile, che si poteva parlare solo dell'«opzione zero». Erano convinti di averla spuntata per la terza volta con Eltsin. Il loro atteggiamento domenica sera era questo: ci eravamo preparati a combattere per l'«opzione zero» ma abbiamo avuto la vittoria completa. Ho passato la notte al parlamento. Alle due sono andato a vedere cosa stavano facendo Rutzkoi e Khasbulatov, ma le loro guardie mi hanno risposto che stavano riposando. Quando è iniziato l'attacco, ho preso il mio radiotelefono per trasmettere ma ho scoperto che si erano scaricate le pile. Per 2 volte ho trasmesso le notizie con il radiotelefono del vice presidente del Parlamento Voronin, ma alla terza mi ha cacciato dicendo che aveva urgenti trattative con il governo. «Ormai hanno perso, Eltsin deve revocare il suo decreto e solo dopo potremo cominciare a parlare.» Allora ho pensato che Khasbulatov e Rutzkoi dovevano avere un radiotelefono, in fondo erano quasi dei capi di Stato. L'ufficio di Rutzkoi era insolitamente vuoto, nell'atrio c'erano solo 2-3 persone. Il telefono c'era, mi hanno detto, ma stava «nell'altra stanza». Ho capito che stavano parlando dell'ufficio di Khasbulatov. La sua porta era sbarrata da duo pesanti casseforti. Le guardie mi hanno portato da Rutzkoi che mi ha guardato e ha detto: «Allora, "Interfax", hai visto come sono andati a finire i vostri giochini?». Ho capito che non ce l'aveva con me, voleva solo sfogarsi con una persona nuova. Gli ho detto che volevo usare il suo telefono. «Fai pure, trasmetti. I tuoi devono dire a tutto il mondo che siamo attaccati ma che non è colpa nostra, stiamo aspettando i rinforzi». Sono passato alla stanza accanto, più piccola, dove c'erano dei morbidi divani. E vidi... no, non poteva essere Khasbulatov, che si distingueva sempre, un uomo che era impossibile ignorare. Ma sul divano era sprofondato un uomo completamente diverso da lui, eppure era lui. Gli ho stretto la mano, lui mi ha guardato con tristezza e poi mi ha detto. «Che fai qui? Vattene, vattene, perché devi rischiare pure tu?». Aveva ancora un portamento fiero ma era stanco e preoccupato e ho capito che, essendo un realista, aveva già intuito l'unica cosa che gli rimaneva da fare: aspettare. Accanto a lui c'era Barannikov che parlava della situazione sul ponte di fronte alla Casa Bianca, ma Ruslan Imranovich non lo ascoltava. Aveva gli occhi innaturalmente sbarrati, immersi dentro se stesso. Ogni tanto mi diceva: «Vattene, vattene». «No, rimarrò qui». Mi ha sorriso: «Fai come vuoi». Non ha più parlato con nessuno, non ha nemmeno risposto a un generale che è venuto a fargli rapporto con tanto di saluto militare. Mi è sembrato che si stava abituando all'idea della sconfitta e stava ormai aspettando la fine. All'improvviso si è alzato ed è scomparso nell'altra stanza. Si è mosso così rapi- riamente che perfino le guardie del corpo hanno fatto appena in tempo ad inseguirlo. Khasbulatov si è avvicinato all'entrata nel corridoio lungo circa 20 metri che dava sulle scale, sbarrate dalle casseforti che avrebbero dovuto proteggerlo da eventuali pallottole. Non voleva più parlare, solo di tanto in tanto, dopo qualche cannonata particolarmente forte, ripeteva: «Come ci colpiscono, come ci colpiscono». Il comportamento di Rutzkoi era invece l'esatto contrario. Rutzkoi camminava per le stanze senza sosta. Indossava un'uniforme militare e aveva il mitra, era pronto a difendersi e a difendere la sua carica presidenziale. Spesso si avvicinava al radiotelefono e ripeteva: «Bisogna chiamare l'aeroporto militare di Tushino, presto, presto». Ho capito che speravano nell'attacco degli elicotteri militari che avrebbero bombardato i carri sul lungofiume liberando la zona. Mi ha visto e mi ha detto di nuovo: «Ah, "Interfax", hai visto come è andata a finire?». Mentre stavo trasmettendo dal suo telefono, mi ha detto: «Devi dire a tutto il mondo che devono fare pressione sulle forze armate, devono cessare il fuoco». Mi è venuto in mente che avrei potuto fare da mediatore: «Posso telefonare a Interfax, loro si metteranno in contatto immediatamente con Cernomyrdin e io proporrò la capitolazione a nome suo». Lui mi disse di no, che erano pronti alle trattative per cessare il fuoco. «Devi dire che non stiamo sparando, sono loro che ci attaccano.» Questo era vero. Mi era chiaro che per loro l'assalto era stato una sorpresa. Ma penso che Rutzkoi coltivava ancora qualche speranza, contava sugli elicotteri. Ho telefonato all'agenzia che si è messa subito in contatto con Cernomyrdin. La sua risposta è arrivata poco dopo: era d'accordo ma voleva che il Parlamento mettesse fuori la bandiera bianca. Cominciarono le trattative. Dove e come mettere la bandiera. Rutzkoi proponeva di metterla a una delle finestre del quinto piano, ma Cernomyrdin chiese di far uscire qualcuno dal portone principale dell'edificio con la bandiera in mano, dopo di che sarebbero uscite le donne e poi gli uomini che erano pronti ad arrendersi. Rutzkoi correva per la stanza e il numero delle vittime che annunciava a Cernomyrdin cresceva ogni 10 minuti, fino ad arrivare da alcune decine a centinaia e a 10 mila persone ancore rimaste dentro il palaz¬ zo. Poi si è avvicinato al telefono e l'ho sentito dire: «Valerij, Valerochka, fai qualcosa, ti prego». Ho capito che stava parlando con Zorkin. Aveva chiesto anche al rappresentante del patriarca di fare pressioni sulla chiesa ortodossa per cercare di convincere Eltsin a cessare l'attacco. Intano l'assalto continuava, certe volte eravamo costretti a buttarci per terra perchè i cannoni miravano proprio al 5 piano, agli uffici dei leaders. Rutzkoi mi disse: «Telefona, devi dire che siamo pronti a trattare». Feci alcuni giri di telefonate con Cernomyrdin, gli dissi che c'erano donne e bambini dentro e che bisognava farli uscire. Era vero che nel palazzo c'era un gruppo del komsomol ucraino, ragazzi di 14 anni. Ci siamo messi d'accordo sulla bandiera, che sarebbe stata portata fuori come chiedeva Cernomyrdin, dopo di che sarebbe cessato il fuoco. Io chiesi a Rutzkoi: «Ma dove prenderete la bandiera bianca, penso che nel suo arsenale non ci sia. Vuole la mia camicia?». Rutzkoi non ha capito la battuta e ha risposto: «A che ci serve la tua camicia quando ci sono le lenzuola?». E, dopo una pausa, mi ha chiesto: «Ci vuoi andare tu con la bandiera? In questo caso non ci saranno provocazioni, non spareranno su un giornalista noto come te». Ho capito che temeva davvero che cominciassero a sparare e ho risposto di sì. «Cammina lentamente, l'ordine di non sparare non arriverà subito». Era vero ma capivo che lui sperava ancora nel miracolo degli elicotteri che sarebbero arrivati a salvarlo. Vjaceslav Terekhov Ore 8 Volontari fedeli a Eltsin si lanciano come kamikaze all'assalto del Parlamento Molti cadono colpiti Nella foto un giovane si getta in soccorso di un compagno caduto

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