Il macellaio della pittura

Il macellaio della pittura In rassegna a Bologna ottanta «quieti tormenti», fra preghiera e desiderio Il macellaio della pittura La sacra carnalità di Ludovico Carracci i BOLOGNA L «bue» lo avevano soprannominato gli amici di pittura, e certamente non soltanto perché era figlio di beccaio, il macellaio Carracci, che il cugino Annibale avrebbe così bene omaggiato in una scena di bottega. Era una coloratura di carattere: non lento soltanto nell'apprendere i rudimenti manieristi, chissà se davvero nell'atelier di Prospero Fontana* come certi documenti lasciano intendere, ma calmamente bovino nel prendere le proprie strade espressive, ruminando gli stilemi ben deglutiti della tradizione. Ed il conte Malvasia della Felsina Pittrice «bue» lo soprannomina con una certa deferenza: che «passava tutti col moto suo pigro e andava oltre ogni altro». Affascinante Ludovico, ispiratore così poco «accademico» dell'Accademia dei Desideranti, che poi sarà degli Incamminati, meno infallibile, certamente, del sodale Annibale (sleale confrontarlo con l'altro cugino Agostino, specializzato in grafica), meno felice di grazie e di risultati, indubbiamente, ma quanto più intrigante e controverso. Artista contraddittorio, se vogliamo, ogni quadro uno stile, ma una riconoscibilissima tintura morale, melanconica e nera, che tutte quelle tele riassembra in unico canto di contrizione rasserenata e di dedizione all'umile espressività «religiosa» della pittura. Non dobbiamo più, oggi, come negli Anni Trenta di Longhi, rivalutare un filone disprezzato, riammettere «e con gli onori dovuti, gli spregiatissimi eclettici nella storia vera dell'arte italiana», riabilitando la vena «lombarda», «padana» dei cugini pionieri di una pittura che «fruttificherà nel Barocco». E nemmeno, come nei Cinquanta di Arcangeli, levare la patina sprezzante a quella nevralgica aggettivazione di «eclettico», preservando i Carracci dalle «sbarre di quell'interpretazione eclettica e accademica che li ha così danneggiati presso il gusto moderno». Oggi non c'è da redimere nessuno: semmai da capir meglio. Difficile dire, di primo impatto, se la maestosa retrospettiva bolognese, aperta sino al 12 dicembre al Museo Archeologico, con rigoglioso catalogo Nuova Alfa, risolva tutti quei problemi soprattutto per un pubblico di non esperti. Anche perché la sequenza di presentazione dell'ottantina di opere, chissà se per superflui motivi di decoro d'arredamento (non per comprensibili ragioni di dimensioni) è quanto mai complicata, e bisogna arrendersi al pur logico ripiego di saltabeccare qui e là per le stanze, dietro i numerini conseguenti di catalogo. Ad un inaugurale impatto, dicevamo, la stanza d'introibo non sembra nemmeno, quale vuol essere, l'officina delle presunte prime prove di Ludovico, di una giovinezza che rimane indistricabile: semmai un assaggio iconologico delle varie soluzioni espressive del bolognese. Si va dalla commovente tavoletta del Matrimonio mistico di Santa Caterina, con quel gioco elegante di mani affusolate ed il taglio mongolo degli occhi e quell'adagiarsi naturale delle rocce in un'atmosfera di cameretta vellutata da muschiati tendaggi - insomma, un Parmigianino adagiato su una stoffa meno altera, più confidenziale e campagnola - al bellissimo e già maturo San Vincenzo dalle temperie tenere e barocchesche, al presunto Autoritratto con cappellone contadino, ragionevolmente restituitogli da Arcangeli, dove si sfalda la «nera e timida malinconia di un giovane quasi distratto dietro un suo pensiero». Gli occhi dolci e sfuggenti, più che non penetranti: mentre ha uno sguardo puntuto e maligno, quasi infastidito, il cagnino che ci accoglie nella stanza in penombra, già secentesca, dei giocatori di scacchi, che hanno le mani e lo sguardo venduti alla perizia del gioco: e la verità del «naturale», tra tappeti operati e cuoi alle pareti, scende rapida come una tenda a tagliare la luce. Che contrasto con l'incantata immacolatezza di luce sacra, che avvolge come d'uno spot celeste la Madonna-bambina de ì'Annunciazione, e già sembra annunziare Zurbaran, così come la Madonna degli Scalzi anticipa profeticamente Murillo; o con quella favolistica visione notturna di San Francesco che mescola quotidiano e soprannaturale come in un affabile pestello di campagna. Che distanza, quella vedova, castamente abbigliata alla Moroni, grisaille anche morale e lifting fiammingo del volto, alla Vermeer, e nella monocromia solo una breve accensione di colore, nemmeno di brace, delle granate del rosario, da quella portentosa macchina di «ingegneria liturgica» (per dirla con Andrea Emiliani, uno dei curatori della mostra, insieme a Gail Feigenbaum) che è la terribilistica Flagellazione di Douai, che inciderà sensibilmente sul passaggio di Caravaggio verso Roma. Altro che problemi di datazione: Ludovico rimane un mistero, un artista schizoide, che ogni volta inventa il proprio stile e la propria personalissima iconografia (anche se il cardinal Paleotti, con le sue direttive controriformate, non è estraneo a questo lavorìo di succhi gastrici, ruminati sulla tela, in dialogo con l'acquiescenza più ubbidiente di un Bartolomeo Cesi) lasciando traccia ogni volta di questo quieto tormento. E forse non è nemmeno sensata, con lui, quest'ambiziosa caparbietà titanica di tutto voler cronologicamente sistemare, in un'illusione di conseguenzialità progressiva e storicistica: probabilmente Carracci è un artista di salti, di ritorni, di ripensamenti e di tentennamenti continui. La sua cronologia è interiore, sofferta, spezzata ed irrisolubile: e non vale nemmeno il discorso crociano dei risultati, della progressione di qualità (ci sono incredibili avallamenti, nel frattempo: forse quando Ludovico raggiunge per la seconda volta Annibale a Roma e la romanità dei Michelangelo e dei Pellegrino Tibaldi lo scuote, portandolo a quelle compresse figure gigantesche di Santi metallici ed emaciati o ad Ascensioni che sembrano collages ritagliati su suggestioni alla Giulio Romano). Ogni volta Ludovico «prega» pittoricamente e rischia, avanzando quella sua pretesa all'umiltà contrita (tutte tinte quasi monocrome, color tonaca o topo, cromie sorde ed untuose impastate di erba e di terrestrità), umiltà che getta sul terreno, quasi una firma, il ligneo Crocefisso su cui si piega protettivo San Francesco. Ma non dimenticando nemmeno le pompe ambiziose delle sue macchine idrauliche, che comprimono corpi ed eventi e che così scenograficamente preludono al Barocco: e allora le tinte si fanno asprigne, squillanti, di corazza e dì gioielleria. Doppiezza non ingannatoria, perché ogni volta Ludovico tende a raccontare il grande stile liturgico in modi piani, affabili, confidenziali: e la favola del «naturalismo», oggi, potrebbe volgersi nell'accezione più vera di «naturalezza». In ogni periodo sono decisivi i cieli: vedi quello correggesco che si solleva quasi un velario in seguito alla subitanea caduta dei gravi pittorici nella Conversione di Paolo (e la pastosa tromba d'aria si coagula in un Cristo rosato) oppure quelli notturni, intrisi di crepuscolo, che inquietano ogni carnagione, contagiandole dall'interno, come d'una lebbra alla Bassano. «Chiaroscuri meteorologici» diceva Longhi, e forse «meteoropatici» potremmo addirittura, modernamente, avanzare: perché Ludovico sconta ogni volta le atmosfere, le vive umoralmente, sulle nervature del proprio sensibile dipingere. Raramente artista ha tanto lavorato a reinventare le iconografie, a sciogliere i congegni che compaginano insieme storie diverse: San Francesco inconsuetamente plana dentro una Sacra Conversazione affollandola di carni, la Probatica Piscina d'omaggio trasparentemente tintorettesco convoca eleganti committenti come ad uno spettacolo sacro, la ferita terra della Crocefissione di Ferrara s'agita ai piedi come d'un'erba tempestosa, provocata dall'umano dibattersi dei penitenti nel Limbo, SantAntonio convoca intorno alla sua predica miserabilistica un ospizio da campo di vecchi pezzenti. Ma soprattutto, insolentemente e inusualmente, i Vecchioni della poco casta Susanna non si limitano a sbirciare colpevoli la loro preda, ma avanzano ribaldi ad affondare le prensili mani sulle pingue carni della snudata vergine. C'è un bisogno, quasi pretesco, di toccare, di mettere le mani in pasta, di far compenetrare i corpi, di sporgere la scena sull'orlo del «vetro» della visione: come capita a quel carnalissimo Bacio di Giuda, con lo sfondo che preme sulla pittura, quasi a smottar fuori. Non importa se con la sua verità naturale Ludovico vuol «scavalcare il cadavere del manierismo»: manierista dentro di sé lo resta, anti-classico comunque. E non è vero che la sua creatività, invecchiando, declini, anzi. Basterebbero quell'inusitato concerto teatrale di Martiri condotti al patibolo, popolato di testimoni schizzati alla Daumier, o quella struggente invenzione marina del Ritorno dall'Egitto. Infine quel formidabile Martirio di Santa Margherita, con il geniale taglio savoldesco o alla Lotto del popolino che assiste sotto il patibolo, gesticolando pettegolo, e affigge gli occhi talvolta in noi spettatori, come in un puntaspilli. Marco Vallora Era detto il «bue», ruminava sulle tele i suoi umori malinconici, «meteorologici» Tre tele di Ludovico Carracci in mostra a Bologna, al Museo Archeologico Tino al 12 dicembre: da sinistra, «Il matrimonio della Vergine» e «I giocatori di scacchi»; sotto, «La flagellazione» Il catalogo della rassegna è pubblicato da Nuova Alfa

Luoghi citati: Ascensioni, Bologna, Caravaggio, Egitto, Ferrara, Nuova Alfa, Roma