I tamburi di latta di Malevic artista che fuggiva l'immagine

Gli stalinisti tentarono di cancellare il suo nome Da Pietroburgo a Firenze retrospettiva del pittore russo I tamburi di latta di Malevic artista che fuggiva l'immagine ~~w] FIRENZE I L Temibile Provocatore I riemerge dai caveau dei I musei russi, in cui si MI tentò di segregarlo, cancellando il suo nome: Firenze dedica una retrospettiva di sessanta opere a Malevic, artista eccentrico dal percorso ben sagomato (a palazzo Medici Riccardi fino al 5 dicembre, con pezzi esclusivamente del Museo di Stato Russo di Pietroburgo). Certo, mancano quadri-chiave del periodo suprematista e quello stesso suo inquietante autoritratto figurativo, ch'è rimasto troppo esposto alla retrospettiva di Madrid; e sarebbe poi ingiusto fare un confronto con la completissima monografica di New York di pochi anni fa, mancando qui soprattutto i capolavori che Malevic abbandonò a Berlino ad una mostra cui non potè nemmeno presenziare alla vernice, misteriosamente richiamato a Mosca, per poi non riemergervi più: capolavori che oggi stanno allo Stedelijk di Amsterdam. Ma è giusto godere anche quanto ci offre a Firenze, proponendo comunque di Malevic un riassuntivo percorso a tappe. Anche se certe ipotesi inevitabili, di nuova cronologia proposte da Elena Basner possono lasciare perplessi, anche se certe tele (come la Formula Suprematista 1913, dipinta con un inconsueto procedere approssimativo, laccata alla meglio, assolutamente in contrasto con il colore ricercato, «respirante» del Profeta dell'Astrattismo, che pure teorizzava «la mia idea del colore cessa di essere colorata, fondendosi in un solo colore, bianco»), suggeriscono non pochi dubbi (ma erano anche anni in cui Malevic magnificava l'Arte Collettiva, fatta da tutti), anche se certe riconoscibilissime icone, poi molto replicate, di Quadrati neri o di naviganti geometrie Suprematiste, possono non avere troppo il cari¬ sma di prototipi assoluti. Ma, un poco come Duchamp, Malevic, l'altro polo, meno provocatorio, più intransigente delle avanguardie; è soprattutto artista mentale, teorico, che va «guardato» con il pensiero. Nonostante la materia delle sue forme essenziali, nude, assolute (e siamo nei primi Anni Dieci, a scorno dei patetici epigoni nostri contemporanei, che continuano a riproporre quadratini monocromi con una monotonia da beghine imbalsamate) possegga sempre una magia suprema, musicale, un respiro, appunto, di grande colorista «redento» dal concettuale. E così sono interessanti soprattutto le prime sale, dove Malevic si immerge, come per un congedo, nella pasta rigogliosa del colore. Un pointillisme alla Seurat, che mentre finge di condividere i dettami del divisionismo inventa in realtà sentieri profondi e strade senza uscita dentro la materia cromatica, col pennello che incide il ventre del colore rivelando gli impasti stratificati, e la metafora del bosco che si fa meta-soggetto iconogra- fico. Ma molta di questa prima pittura ò una forma di protratto, ribelle congedo: anche dal Simbolismo, per quelle effigi, quasi spiritiche, di figure molto autobiografiche, dagli occhi ficcanti, che scattano a galla dagli intrichi di foreste misteriosofiche, in stile Maurice Denis, ottenute con strani impasti giallini di colori botanici: arancioni-pannocchia, verdi-cetriolo, rossi-zucca. Non dimentichiamo che un pittore emblematico come Manguin aveva già esposto nel 1909 a Odessa, insieme a Vuillard. Che cosa vedesse Malevic in quegli anni è possibile intuire, più difficile invece immaginare come dipingesse davvero, dal momento che, per vincere la battaglia con Tatlin sulla primogenitura dell'astratto, ad un certo punto egli prese ad anticipare la datazione di tutte le sue opere. Ovvio, doveva molto averlo impressionato Cézanne, che entrava proprio in quegli anni nelle collezioni Suskin e Morozov, come dimostra qui una natura morta corposamente cloisonnée. Ma prima? Difficile credere che tra il 1903 e il 1905 disponesse già di una tavolozza così sciolta e disinvolta, anticipasse già una forma di fauvismo stemperato alla Matisse (per esempio certi giacinti sbuffanti, alla Dufy, della fioraia del Boulevard, che fa pensare a certo impressionismo periferico, americano, tipo Mary Cassati anche se forse pare un po' eccessiva la post-datazione della Basner, che propone i tardi Anni Venti. Indubitabile che ad un certo punto Malevic si innervosisca di questa sua talentuosa capacità pittorica, «retinica». E' il cubismo (più ancora che non il futurismo) che lo convince ad uscire dalla trappola dell'immagine. Il cubismo che oltre alla forma e al colore porta sulla tela il suono, «il ritmo della costruzione sonora». E non importa che suonino le fanfare della rivolta dinamica futurista: ((Anche se non vi prestiamo ascolto quel suono esiste, solo l'orecchio interno è in grado di ascoltare le sottili oscillazioni dell'onda». All'inizio, più vicino alla visione lirica, corazzata di un Léger che non di Picasso, Malevic racconta per «cubi sonori» o «cilindri musicali» la vita dei campi: infuocate mietiture e contadine muscolose dalla gonna capace, che potrebbero nascondere molte storie (come l'inizio de! Tamburo di latta di Grass). Invece, senza anticipare una poetica di realismo socialista, l'artista stesso confessa questo suo bisogno di fuggire l'immagine, per dipingere soltanto il «puro lavoro, la fatica dei contadini nei campi»: cioè un'idea, un'astrazione. Attraverso un cubismo transmentale, «alogico» (la battaglia contrapposta, per esempio, di due mondi, un violino ed una vacca sovrapposti), Melvic arriva per rapidi scatti ad un'abbreviazione totale. «Gli oggetti creati dalla nostra rappresentazione non esistono più e se noi li percepiamo è solo perché i raggi del riflesso non sono ancora spariti nel tempo». Come una stella già morta, di cui vediamo ancora il simulacro d'immagine. Influenzatissimo dalla musica, ma senza condiscendenze verso un'esoterismo sinestetico-decadente alla Skriabjn, «straordinario ma effeminato», Malevic propone ormai solo più quadrati, triangoli, campeggiami sul vuoto cosmico del bianco, quasi un nirvana mentale. Perché non c'è in lui l'astrattismo spiritualista di Kandinskij, o la freddezza costruttiva di un Mondrian: c'è questa vittoria concettuale dello Zero, origine parmenidea del Tutto. «Io sono l'inizio di tutto, perché nella mia coscienza si creano mondi». Difficile, a questo punto, condividere ancora le conclusioni di Carandente, che nel ricco catalogo Artificio, torna a parlare di un «triste ed insincero ritorno al figurativo» dell'ultimo Malevic, quasi si trattasse soltanto di una costrizione di regime. Semmai, per i bellissimi tardi ritratti neo-figurativi, pierfrancescani, con cui Malevic sarcasticamente ripercorre e specchia la propria biografia, sarebbe più sensato istituire dei paralleli con Sostakovic, che proprio nell'attrito con lo stalinismo riuscì a comprimere e far esplodere la visionarietà del proprio caustico genio. Marco Vallora Per conquistare la primogenitura dell'astrattismo anticipò la datazione di tutte le opere Gli stalinisti tentarono di cancellare il suo nome Particolare di una famosa opera di Malevic, «Mucca e violino» (1913): due mondi che si incontrano nella mente dell'artista Due lavori di Malevic: a sinistra ecco «Sul boulevard» ( 1903) e, sopra, «Villaggio»