Gruppo '63 revival per soli ceki di Renato Barilli

Tornano i versi sulla «bomba» con gli antichi «babau» di remote polemiche italiane: e Barilli ripropone Joyce il caso. La nostra neo-avanguardia celebra i 30 anni: ma perché mai a Praga? Gruppo '63, revival per soli ceki Chi si rivede, Moravia e l'atomica EPRAGA CCO qui ancora una volta / di fronte al pubblico della poesia / che seduto di fronte a noi minaccioso / ci guarda e aspetta la poesia». Sembra un poco un pupo invecchiato allo Zecchino d'Oro, Nanni Balestrini, mentre legge con compunta emozione la propria non-proprio-inedita Piccola lode al pubblico della poesia. Qualche titubanza forse studiata, la cedevole pronuncia tweed-lombarda ed un'aZZure complice di déjà-entendue, che le aureola come un vecchietto vétiver da poeta. Ci starebbe benissimo la zoomata maligna dell'operatore che fruga maliziosamente sulla mamma emozionata, e balbetta a bocca chiusa la canzoncina, che conosce a memoria, e che dice: «In verità il pubblico della poesia non è minaccioso / forse non è neanche tutto seduto / forse c'è anche qualcuno in piedi / perché sono venuti così entusiasti e numerosi». No, meglio il ripiego furbetto àeW under statement. «O forse ci sono un po' di sedie vuote... / ma quelli che sono venuti sono i migliori!» Migliori chissà, certamente pazienti, perché stanno ubbidienti ad ascoltare questa pioggerellina di versi ammiccanti («mi vede qui che gli leggo questa roba / e la prende per poesia») e d'italiano è probabile che non parlino nemmeno una parola, visto il fitto cicalare di glissandi e aspirate ceche, con cui questo educato pubblico d'intellettuali praghesi accoglie e commenta l'alternarsi al tavolo presidenziale degli eroici resistenti del Gruppo 63, che son venuti a celebrarsi qui dopo trent'anni di reiterate celebrazioni: e Loenetti che getta ancora le sue invettive con la voce del corvo di Uccellacci e uccellini. A Praga, nel fertilissimo contesto di un raggiante Praga Europa Festival dove Monteverdi dà la mano a Goldoni, dove Bach e Mozart trovano adeguati sedi barocche per essere celebrati e dove ci si ricorda delle pregevoli settimane palermitane di musica contemporanea: insomma, una sorta di PragaPalermo-Nostalgia. Ed è quasi un atto onirico di déjà vu spaesato nel tempo, sotto il fremere già autunnale di un salice molto simbolista, nel bellissimo chiostro dell'Istituto di Cultura Italiano, vedrà salire sul palcoscenico Elio Pagliarani, tra un veleggiare di kellerine che portano ai tavoli promettenti bomboloni di panna, agguantare il microfono e con i suoi ben noti shrapnell di parole a mitraglia, ungareggiando, gli occhiali miopi impaludati nella carta, dire: «Avrei voluto leggervi qualcosa di nuovo», ed ecco invece La lezione di Fisica, dirittura 1967. Un vero raduno di reduci, con qualche sconfitto sul campo, puntualmente menzionato come la «buon'anima che non è più qui con noi», tipo generazione del '93, Azorin e Mirò e «quella volta che anche Una- muno è venuto al nostro dibattito», oppure in stile Ragazzi del '99, con poche ferite da mostrare ai nipotini (ma parlano ancora di Moravia e Bassani come temibili babau e nei versi torna sempre fuori l'un po' desueta bomba atomica) e pure l'album da passare tra i banchi per lasciarci su il pensiero, che fa davvero un tantino Club Mediterranée, quando ci si ripromette tutti di rivedersi nell'inverno. Per fortuna che l'indomani, quando ci si raccoglie nell'elegantissimo Belvedere palladiano del Castello, così poco kafkiano, sotto la doratura connivente di un sole primaverile, l'efficacissima organizzazione dell'Istituto Italiano ha fornito le cuffie per permettere uno scambio tra esperienze slave ed italiane, ed ottimi traduttori che un tempo incespicano, soltanto, quando devono stabilire se Anceschi con tutte quelle k sia qualcosa che ha a che fare con la poesia oppure con la Cecoslovacchia. Adesso, però, c'è l'alibi del pubblico straniero, e si può benissimo guazzare nel memorialismo, raccontando all'inconsapevole di quando la de prese il potere, di come Metello, paradossalmente, sembrasse fuori del mondo ai giovani Novissimi, di come si andassero a coniare gli eroici termini di «normalizzazione» e di «abbassamento». Poi più nulla. E ora? Lucidissima la diagnosi di Messinis sulla nuova musica, ci fa piacere sapere che anche Dorfles ritiene dei «tentativi fiacchi e fallimentari» quelli esposti alla Biennale, ma possibile che il Nuovo stia ancora dalle parti di Pina Bausch e Bob Wilson? Venire a Praga per scoprire questo? Barilli parla convincentemente di una poesia italiana che deve farsi «intraverbale», attraversata da altre lingue e dialetti, e ripropone l'immancabile esempio del Finnegans Wake. Peccato che appena uno straniero accenni una parola di francese, precipitosamente questi predestinati del panlinguismo si gettino sulle salvifiche cuffie della simultanea, [m. vali.] Tornano i versi sulla «bomba» con gli antichi «babau» di remote polemiche italiane: e Barilli ripropone Joyce A sinistra: un'immagine di Praga vecchia. Nel chiostro dell'Istituto di Cultura Italiano hanno recitato autori del Gruppo '63 Qui accanto: Elio Pagliarani. Nella foto sotto: Renato Barilli

Luoghi citati: Cecoslovacchia, Praga, Praga Europa