ZERI l'Italia é morta di ignoranza

Il feroce degrado di un Paese: «Un uomo come Miglio mi fa paura, ma la Lega non ha tutti i torti» Il feroce degrado di un Paese: «Un uomo come Miglio mi fa paura, ma la Lega non ha tutti i torti» ZERI rItalia MENTANA DAL NOSTRO INVIATO «Ho una gran voglia di lasciare l'Europa. Ho una gran voglia di andare in Turchia», dice Federico Zeri. «Oggi deve essere pericoloso, con il problema dei curdi. Ma tornerei volentieri in quei posti, lontano da questo troiaio di tangenti, di arte, di cinema...». Il professore è avvolto in un caffetano a lunghe righe verticali bianche e sabbia («l'ho comperato a Damasco, ci si muove meglio»), circondato dai capolavori che ha raccolto in una lunga ricerca, nella villa fortezza museo dove si è ritirato da vent'anni, a Mentana, vicino e lontano da Roma. Sulla scrivania campeggia, tra fasci di carte, la testa barbuta di un antico romano, probabilmente della famiglia di Severo Alessandro, da un sarcofago del terzo secolo, che lui aveva vanamente corteggiato per anni e che un amico ha poi comperato a un'asta per regalargliela. Zeri non può essere di buon umore, questa mattina, come da molte mattine della sua vita. Il telefono squilla ogni pochi minuti, il giornale radio, che non si perde, annuncia altri scandali. Lui vede sbriciolarsi il suo mondo, giorno per giorno. Professor Zeri, l'estate ci ha dato lo sfregio estremo, la tartaruga di Cala Giliolu. Come è possibile che la cultura degli italiani si sia così degradata? «Già, abbiamo avuto anche l'episodio della tartaruga, una faccenda orribile. La verità è che la nostra classe media è di una ignoranza massiccia. Mi dica: chi va a vedere i nostri musei? La maggior parte dei visitatori è costituita da giapponesi o da anglosassoni. Gli italiani ignorano la storia, non conoscono il passato e non si interessano del futuro, per loro conta solo il presente. Persone di alto livello sociale vedono la tartaruga e la spezzano per portarsene via la testa». Ma per lo studioso che al patrimonio artistico ha dedicato la vita, non c'è solo l'atteggiamento del pubblico, c'è quello dell'Amministrazione. «E' un'Amministrazione che poteva andare bene in uno Stato come l'Italia fino al 1950. Oggi non più. E' un'Amministrazione vetusta e sclerotica, anche se ci sono all'interno elementi attivissimi. Ci sono eroi, martiri, a cui bisognerebbe dare l'aureola già mentre sono in vita. Ma che possono fare, senza mezzi? Ed è un'Amministrazione vittima di un flagello: la politicizzazione, risalente all'epoca fascista. Hanno impedito il catalogo dei beni culturali, la ricognizione fotografica. Hanno fatto acquistare allo Stato autentiche croste mentre dall'Italia partivano capolavori». Arriva una telefonata, il volto di Zeri si altera, il lontano interlocutore rinuncia a insistere. E il professore si rasserena. «Oggi per fortuna c'è un ministro dei Beni culturali che è il primo a occuparsi di queste cose. Ma bisognerebbe avere gli strumenti». E gli strumenti non ci sono. «Ci sono, qualche volta, nelle città. La provincia è abbandonata. Ma lo sa che certe Soprintendenze non hanno nemmeno l'automobile per sorvegliare il territorio? Si sta distruggendo il tessuto connettivo, ad esempio qui intorno a dove abito è sparito tutto per un raggio di venti chilometri, quadri, sculture, iscrizioni e tutto il resto». L'elenco dei mali culturali è lungo, Zeri cita solo gli esempi più clamorosi. «Nonostante gli sforzi dell'ufficio per la catalogazione, manca un archivio fotografico generale come quelli di New York o di Londra. Voglio vedere che cosa succederà adesso, con le frontiere aperte. ! Molti musei non hanno un cata! . jp completo. Le uniche due biblioteche che funzionano sono tedesche, la Hertziana a Roma e quella dell'Istituto germanico di storia dell'arte a Firenze». Il telefono sta di nuovo suonando, con un cri cri sottile, che Zeri cerca di ignorare. «La grande biblioteca italiana di archeologia e storia dell'arte a Palazzo Venezia è stata per anni in con¬ dizioni penose e chiusa al pubblico, persino devastata dall'umidità. Ronchey tenta di trasferirla al Collegio Romano, ma trova l'ostilità della burocrazia. Eppure, da questa biblioteca chiusa al pubblico, è sparito un pacco di disegni importantissimi. Chi li ha portati via?». Il cri cri non cessa, il professore deve alzare la cornetta. «E poi - incalza, appena riesce a liberarsi - c'è il livello dell'Università italiana, che è bassissimo. I giovani che si presentano alle Soprintendenze hanno avuto insegnanti spesso di li vello grottesco, di ignoranza disarmante e i loro allievi arrivano all'Amministrazione del tutto impreparati». Eppure lei ha accettato di collaborare al ministero. «Io sono il vice presidente del Consiglio nazionale presso i Beni culturali. Noi ci muoviamo su un terreno devastato da decenni di incuria. Non faccio nomi, non me li chieda». I nomi se ~«o nell'aria, ma arriva una ter*» telefonata che li disperde, prima che siano pronunciati. «E a questo - martella Zeri - si aggiunga la disonestà dei professori università- ri, che seguono troppo spesso i loro affarucci, e il traffico delle expertises. Ma sa che non esiste neppure un albo degli esperti? Tutti possono dare giudizi. C'è poi la politicizzazione dei quadri universitari, e quella autentica vergogna che sono i concorsi per le cattedre, e tutto il resto». Che spazio è rimasto, per l'uomo di cultura, in questa situazione? «Si fa il possibile. Molti decreti sono stati disattesi. C'è una legge che obbliga a stampare i cataloghi dei musei nazionali dal Poligrafico dello Stato. Mai applicata per molti decenni. Ce n'è un'altra che limiterebbe il numero e il carattere delle mostre d'arte. Nemmeno. Si fanno mostre dappertutto, sempre. Hanno portato all'estero perfino il gruppo del Verrocchio di Orsanmichele a Firenze. Ma sono matti?». Nessuna speranza, almeno per il futuro? «Adesso c'è un ritorno all'ordine, con Ronchey. Qualcosa si può fare. E poi c'è negli elementi giovani una gran buona volontà, non sono stati ancora corrotti. Si sono fatti lavori importantissimi, di recen¬ te, anche con gli sponsor». Per esempio? «Per esempio la ripulitura degli affreschi dei Sancta sanctorum, a Roma. Era l'unico avanzo del Laterano medievale, non toccato da Sisto V. Sono venuti fuori affreschi intatti del 1270-1280, di enorme importanza. E qualche altro segno positivo c'è. Il progetto dei Grandi Uffizi, l'istituzione di un mobilier nationale per arredare le ambasciate...». La quarta telefonata deve venire da una persona amica, il professore questa volta le dà volentieri ascolto. Ma il volto torna ad aggrondarsi, quando posa il ricevitore. «No, la crisi è davvero generale. Anche in letteratura, anche nel cinema. Che libro è usci¬ to, dal Premio Strega? Quali film si veyHtttBJK dono, dei nostri regi■BHk sti?». E c'è qualcosa T ■Hi sicuramente di pegI gio, dove si tocca v" 1 proprio il fondo, per Federico Zeri: la tv. «La televisione italiana è una cosa immonda, a parte alcuni bei film. Meglio riguardarsi i film della serie di 007 che perlomeno divertono. Ma il resto? La tv è la vera responsabile del crollo italiano. E' cominciata nel momento in cui una classe di contadini si inurbava, il loro pane quotidiano è stato il kitsch più volgare e cretino». Dalle pareti della grande casa museo ci guardano, dappertutto, le testimonianze del Rinascimento. Perché saremmo caduti cesi in basso? «Perché l'Italia è un Paese che vive solo con un governo forte e con la verità che viene dall'alto. C'è voluto Cosimo de' Medici, a Firenze, c'è voluto Carlo III di Borbone, a Napoli. Appena ci si allontana di lì le cose durano vent'anni e si sfasciano. La democrazia viene dal Nord, dal mondo protestante. Noi siamo incapaci a viverla». Il grande studioso dell'arte italiana non crede troppo alla realtà dell'Italia unita. «L'Italia moderna è nata senza partecipazione popolare. L'hanno voluta alcuni intellettuali opportunisti, insieme con l'Inghilterra, che lo faceva per ragioni di politica estera inglese, così come la Francia ha creato il Libano per ragioni di politica estera francese. E la mancata partecipazione delle masse alla cosa pubblica ci pesa. Anche per certa gente benestante, è lecito devastare un bene della collettività come la tartaruga da cui abbiamo incominciato a parlare. Invece democrazia vuol dire rispetto per il pensiero e per gli interessi degli altri». «E poi - il tono di Zeri cresce, sdegnato - perché l'Italia unita è morta l'8 settembre 1943. Io quel giorno ero all'ospedale, altrimenti sarei andato anch'io a Porta San Paolo, come il mio amico Persichetti, che è stato ucciso. Quando un Paese subisce un trauma di tale enormità e le masse popolari non si muovono per difendere la capitale si può dire che questo Paese non esiste». E l'Italia rinata dopo il '45? «L'Italia è morta e poi, grazie alla guerra fredda, è stata inserita artificialmente in un circuito che adesso si sta sfasciando. Lo Stato non regge più, perché un Paese che era cadavere è stato tenuto in piedi artificiosamente, e in quale modo, fra tangenti, lottizzazioni e mitologie». Ma non vede nessuna uscita, per il nostro Paese? «Il nostro Paese può salvarsi solo attraverso una soluzione federale, con larga autonomia, e un governo centrale con poche funzioni. La Lega non ha tutti i torti, anche se un uomo come Miglio mi mette paura. E' stato un errore colossale nell'Ottocento distruggere il Regno delle due Sicilie». Lo studioso di arte, nella sua indignazione, si fa giudice di storia. «Dopo il 1861, per i primi vent'anni, il nostro Stato è andato avanti bene, ha fatto miracoli. Ma presto sono cominciati gli scandali, le avventure coloniali. E poi il delitto della Prima Guerra mondiale, l'idea criminosa di gettare il Paese in quel massacro. Seicentomila morti non passano invano, lasciano il segno. E' di lì che è nato il fascismo. E quelli che la guerra l'hanno voluta, i Croce, gli Albertini, si sono poi messi a fare gli antifascisti. Finché è venuto l'8 settembre, il rintocco a morte dell'Italia. Sarebbero bastate diecimila persone, e i tedeschi non sarebbero entrati in Roma. Nessuno ha fatto niente». Zeri ha operato a lungo all'estero, ha conoscenze in tutto il mondo. Ha mai pensato di lasciare l'Italia? «Tante volte. Nel 1959 stavo per farlo». E dove andrebbe, fuori? «A Lugano. A Parigi. In Inghilterra. No, forse in Inghilterra no. Non a New York, è troppo decaduta. A Los Angeles. Nei Paesi arabi, nel deserto. Tè nel deserto, ha presente il titolo di Bowles? Negli Anni 50 avevo proposto il romanzo alla Einaudi, mi hanno detto che non interessava. Così è uscito 40 anni dopo, quando era già superato. Sì, vivrei volentieri nel deserto». Però ora è a Mentana, pochi chilometri da Roma. «E dove metterei tutti i miei libri? Le mie cose? Sono stanco, non sto bene, vorrei dormire per un anno». I libri sono tutti in ordine, pronti a essere consultati, come le buste con le schede e le fotografie che inzeppano gli scaffali. Zeri sa che deve ancora scrivere tante pagine, i fogli di appunti si sono accumulati sulla scrivania, sotto lo sguardo dell'antico romano, che vigila nel marmo. Il professore non dormirà. Giorgio Calcagno Ladri, corrotti, schiavi della tv: «Per far risorgere il cadavere ci vorrebbe uno Stato federale» Zè m yHtttBJK ■BHk T ■Hi I v" 1 è morta di ignoranza Federico Zeri: «Ho voglia di andarmene e di rifugiarmi in un deserto» Alberto Ronchey Sopra: la tartaruga sfregiata quest'estate a Cala Giliolu