Economist: la gloria e l'arroganza di Mario Ciriello

Compie 150 anni il settimanale più famoso del mondo, amato all'estero, snobbato in patria Compie 150 anni il settimanale più famoso del mondo, amato all'estero, snobbato in patria Economist: la gloria e l'arroganza Radicali di centro, con grinta... AVEVA 38 anni, lo scozzese James Wilson, quando decise di fondare e dirigere una pubblicazione I che permettesse ai lettori di vedere e capire come individui e nazioni riuscissero a creare ricchezza. Era il 1843 e Wilson aveva appena finito di costruirsi una seconda ricchezza, dopo aver perso la prima, sudato frutto di attività industriali e commerciali, con un investimento avventato e sfortunato. Nacque così The Economist, 150 anni fa, proprio di questi giorni, un genetliaco ricordato oggi in molte capitali e non soltanto dai giornalisti, ma anche dal mondo politico e finanziario. Ed è giusto che sia così, perché YEconomist non è una rivista come le altre, è un'istituzione molto ammirata ma poco conosciuta, una gemma scintillante ma un po' misteriosa. «Enigmatica», la descrive il Wall Street Journal. E' vero che questa pubblicazione inglese ha i suoi lettori più entusiasti fuori di quest'isola? E' vero che la sua «filosofia» giudicata adesso modernissima non è molto diversa da quella che YEconomist predicava alla nascita e ha continuato a predicare per 150 anni? E' vero che pecca di arroganza, di una presunzione spesso esasperante? Sì, è tutto vero, come si scopre con una visita all'elegante sede dell'ebdomadario, in una propria piazzetta che si affaccia su una delle più belle e più famose vie di Londra, St. James's Street. E' difficile immaginare un'ubicazione più inglese, con Buckingham Palace, Whitehall e Westminster a tiro di schioppo. Ma da quel bianco palazzo si guarda ben oltre le coste di quest'isola. Nel 1963, la direzione dell'Economist fu offerta a Roy Jenkins, che la rifiutò. Ne confidò il motivo a un suo diario, in cui scrisse: «Non sono mai stato un fervido lettore dell'Economist, che considero essenzialmente una pubblicazione per gli stranieri». E' la medesima tesi del Sunday Telegraph che, in un grande articolo sul 150° anniversario della rivista, la elogia, ne parla con ammirazione, ma conclude che la sua influenza in Inghilterra è minima. Definisce anzi YEconomist, nel titolo, The Great Unread, letteralmente II Grande Non-Letto, la stessa ironica etichetta appioppata ai best sellers comprati solo per il loro status, come le opere di Umberto Eco e di Steven Hawking. Sono argute iperboli, ovviamente, ma utili. Indicano la virtù principale dell'Economist, il suo internazionalismo. Le cifre sono eloquènti. HEconomist vende adesso 508.000 copie ogni settimana, così suddivise: 100.000 in Inghilterra, 117.000 sul «continente» europeo, 212.000 fra Stati Uniti e Canada, 58.000 in Asia e 21.000 nel resto del mondo. Il Wall Street Journal ha annunciato in questi giorni «YEconomist conquista l'America», la rivista inglese già raccoglie più pubblicità di Time, Newsweek e Fortune. Il direttore, Bill Emmott, 36 anni, al timone da pochi mesi (il suo predecessore Rupert Pennant-Rea è divenuto vice governatore della Bank of En- gland) conferma che il suo vascello avanza verso tutti i punti cardinali e dice: «Sì, siamo adesso un giornale internazionale, non più britannico: ed è tale qualità che lo rende attraente agli americani, agli italiani, ai tedeschi». Attenzione, una curiosità: YEconomist ama definirsi un newspaper, un giornale, non un magazine. Bill Emmott aggiunge: «Penso, anzi, che l'internazionalismo sia il grande trend di questa nuova epoca e che YEconomist debba esserne all'avanguardia». Gli cito l'ampio saggio del Sunday Telegraph, secondo il quale YEconomist, sotto la sua leadership, diverrà sempre più l'organo di «quel liberalismo internazionale, multirazziale, senza classe e senza radici, che è la nuova rispettabile ideologia di questa era». Bill Emmott commenta: «Ho un'u¬ nica obiezione, la parola "senza radici". Tutti gli internazionalisti sono ben radicati nei propri Paesi, ma desiderano intensamente capire e incoraggiare l'interdipendenza dell'economia mondiale, del business mondiale, della politica mondiale». Internazionalista è sempre stata, in realtà, la «filosofia» di questo singolare newspaper, nato per promuovere il freetrade e il liberalismo classico alla Richard Gobden e John Bright. C'è chi spesso chiama YEconomist un giornale conservatore, ma non lo è: resta valido il ritratto dipinto nel 1955 dal direttore Geoffrey Crowther: «Apparteniamo ai Radicali. La nostra posizione storica è all'Estremo Centro». Certo, l'Economist ha dato la sua benedizione alle strategie pro-mercato e pro-rettitudine fiscale di Margaret Thatcher e di Reagan, ma, da 150 anni, avversa e conservatorismo e socialismo, odia e combatte ogni attentato alle libertà civili, alla democrazia, ed è spietato contro chi, in politica o in business, non accetta le re¬ sponsabilità dei propri errori. Un'altra convinzione errata: che quelle cento e più pagine di panoramiche planetarie siano compilate ogni settimana da una falange di giornalisti. Sono soltanto 50, invece, un numero che comprende i principali corrispondenti all'estero. E' uno staff eccezionale, in quanto tutti sanno fare tutto, articoli di fondo e semplici cronache. Senza primedonne e pesi morti, e nessuno obietta se il proprio pezzo è selvaggiamente riscritto o tagliato. 150 giornalisti accettano questa disciplina perché YEconomist vuole avere una voce unica, quindi anonima, senza protagonismi, una voce che dev'essere altresì limpida e cristallina. Lo «stile» dell'Economist fu codificato tra il 1860 e il 1877, quando il suo direttore Walter Bagehot, eminente costituzionalista, decretò: «Dobbiamo sforzarci di scrivere in modo preciso e pittoresco, così come la gente parla, e non disdegnare espressivi colloquialismi». «Questa voce è spesso "troppo arrogante"», ammette Bill Emmott. («Sovente diamo l'im¬ pressione che chi la pensa diversamente sia un idiota», dice il periodico in un suo opuscolo sui 150 anni) ed è un'«arroganza» tanto più schiaffeggiante in quanto tra le virtù dell'Economist vi è la brama di pronunciarsi su tutto. Gli italiani sbagliano quando giudicano l'ebdomadario «molto inglese», un esempio di elegante pacatezza, di olimpica calma: è l'opposto, ogni settimana, la rivista sferza e azzanna mezzo mondo. Bill Emmott spiega: «E' perché siamo un giornale d'opinione, perché prendiamo posizione che abbiamo successo ovunque. Vi sono fin troppe informazioni, scarseggiano invece le vedute, le idee». Nel 1968, quando il governo di Londra limitò l'ingresso in Inghilterra dei cittadini asiatici e africani con passaporto britannico espulsi dal Kenya, YEconomist uscì con una copertina feroce. Mostrava un british passport su un mucchio d'immondizia: la dicitura diceva: «Ecco cosa vale». Fu il grido di una furibonda voce radicale. Mario Ciriello e223 aaa e35b3 1 fi» -frSRSSg?, Londra: Fleet Street grande articolo sul 150° anniversario della rivista, la elogia, ne parla con ammirazione, ma conclude che la sua influenza in Inghilterra è minima. Definisce anzi YEconomist nel titolo The nica obiezione, la parola "senza radici". Tutti gli internazionalisti sono ben radicati nei propri Paesi, ma desiderano intensamente capire Londra: Fleet Street, la via dei giornali. In basso: la testata