Il «Cuore» del Tenno

Il «Cuore» del Tenno FOGLI DI BLOC-NOTES Il «Cuore» del Tenno Conversazioni con Akihito PIAN dei Giullari, sulle colline di Firenze, fronteggia la basilica di San Miniato al Monte, la più — bella chiesa romanica sulle rive dell'Arno. In linea d'aria è meno di un chilometro. «Là da quella basilica Michelangelo guidava la resistenza della Repubblica, nel 1530»: spiego all'imperatore del Giappone, che è il 125° imperatore e che nessuno potrebbe chiamare col nome di Akihito, senza commettere un gesto scortese e quasi offensivo. E riprendo: «Qui su queste colline erano piazzate le artiglierie spagnole, anzi imperiali, destinate a prevalere sulla tenace resistenza della città repubblicana, prolungata per tre anni». L'imperatore, che visita per la seconda volta Firenze (c'era venuto da principe ereditario nel 1953, ricorda La Pira, ricorda l'accoglienza di Luigi Einaudi e la successiva ospitalità del Quirinale, ricorda il tratto del «premier» De Gasperi), si interessa a tutti i particolari, è diligente e minuzioso come un professore universitario piuttosto che come un sovrano. La visione della casa di Galileo, sul colle prospiciente di Arcetri, lo colpisce particolarmente: «E' un nome molto onorato in Giappone». E quando gli indico la villa di Francesco Guicciardini, confinante con la mia casa-biblioteca (e relativa fondazione), quella villa dove il grande storico ormai malvisto dai Medici scrisse immalinconito la storia d'Italia, l'imperatore mi risponde con una battuta che non sembra pertinente ma lo è: «In Giappone è molto letto Machiavelli, // Principe è il libro più tradotto dell'intera letteratura italiana». E fra le opere giapponesi delle mie raccolte, l'imperatore si sofferma sulla Commedia di Dante, tradotta da un italianista insigne, Soichi Nogami: un volume smilzo, rispetto a qualunque altra edizione in altra lingua, perché gli ideogrammi giapponesi fanno risparmiare enormemente spazio e carta. «Vorrei vedere i libri della sua infanzia»: mi dice con voce dolcissima l'imperatrice Michiko, che conosce benissimo la civiltà italiana, per avere studiato nel Dipartimento di lingue e letteratura straniere di una univer sita di impronta cattolica a To kyo, il Sacro Cuore (pure senza avere mai visitato l'Italia) e che è autrice di libri per fanciulli: uno dei quali lo ebbi in dono a Tokyo quando rappresentai l'Italia nel novembre 1990 all'incoronazione di Akihito, Hajimete no Yamanobori, «La mia prima monta gna». Ed ecco in rapida successione La vita di Garibaldi regalatami da mio padre nel maggio 1933 (neanche otto anni); una piccola Storia d'Italia donatami nel 1934 (nove anni); e un tutto Fo scolo, acquistato alla prima asta libraria cui partecipai, sempre con mio padre, da Gonnelli, nel maggio 1938 (tredici anni). Quel Foscolo - un volume solo edito a Napoli, mille pagine cinque lire di costo - porta l'im peratrice a introdurre altri due nomi nel contesto di quelle che diventano comuni memorie, Collodi e De Amicis. Pinocchio e Cuore: «Li conside riamo in Giappone - sussurra l'imperatrice - come libri no stri». E vuole vedere le prime edizioni e le sezioni dedicate a entrambi gli autori, fra i mag giori «uomini che fecero l'Italia». Alla sezione De Amicis, che è nutrita, il suo occhio si porta sul volume Le porte d'Italia, con le illustrazioni di Gennaro Ama¬ tszSli1telvpttilinscmpnlres a e a e a n ¬ to, un'edizione di Treves di fine secolo, con tutti i brividi del nazionalismo che avanza. Sono ben noti i limiti ferrei che la nuova Costituzione, quella imposta da Mac Arthur nel 1947, fissa ai poteri dell'imperatore che non è più «figlio di Dio» e non è neanche in senso letterale il capo dello Stato, pur conservando il diritto di firmare gli atti principali di governo. Non è l'imperatore - per intendersi - che sceglie il presidente del Consiglio; è la Dieta che lo indica in modo vincolante (e l'imperatore firma). Akihito «è il simbolo dello Stato e dell'unità del popolo»: una formula singolarissima su cui si sono consumati i giuristi di tutto il mondo, nell'intero dopoguerra. Il sovrano assolve compiti prestabiliti e obbligati: senza nessun margine di discrezionalità (lo scioglimento delle Camere, per esempio, è compito esclusivo del governo che risponde solo davanti al Parlamento). E se nella conversazione con l'imperatore irrompe un tema politico, Akihito si rivolge al capo della delegazione che in questo caso è un ex primo ministro, Kaifu (lo stesso che incontrai in Giappone nel novembre 1990), per chiedergli di dare lui la risposta. Così è avvenuto sul tema dei rapporti con la Russia di Eltsin, rapporti sempre tesi per l'incombere del «nodo» delle isole Curili. E per il resto. «Il Giappone sta all'Asia come la Gran Bretagna sta all'Europa». L'imperatore che conosce profondamente l'Inghilterra, che è legato da vincoli antichi alla corte britannica, lo sottolinea con particolare fermezza: imperatrice si è addirittura specializzata in lingua e letteratura inglese. E ci fu un momento, proprio all'inizio di questo secolo, in cui si pensò di intro durre l'inglese come lingua na zionale nell'intero Giappone Tanto il modello britannico serviva alla trasformazione straordinaria della società nip ponica. «Ma una differenza c'è fra Giappone e Gran Bretagna soggiunge Akihito, la cui voce è sempre bassa, quasi rattenuta e discreta -: il Giappone non ha subito mai invasioni da parte dei popoli del continente». Quando ricevo l'imperatore a Milano in prefettura insieme col cardinale Martini, che si presenta come cardinale gesuita, l'imperatore quasi lo interrompe per sottolineare con un accenno di sorriso: «I gesuiti sono nostri vecchi amici, sono i più vecchi amici che sono giunti dall'Europa». La parabola della penetrazione gesuitica, e cattolica, in Giappone, stroncata nel 1640 da misure di persecuzione politica e religiosa protrattesi per due secoli, non può essere certo rievocata in quell'occasione. Basterà osservare che il seme gesuitico non è rimasto sterile. Ancora oggi - su poco più di seicentomila cattolici rispetto a una popolazione di centoventi milioni di abitanti - esistono tre università condotte dai gesuiti e molte altre istituzioni scolastiche, sotto la loro influenza. Lo stesso imperatore aggiunge che sta per arrivare a Tokyo il presidente della Repubblica portoghese, Soares, per festeggiare i quattrocento cinquantanni dello sbarco dei portoghesi che aprì le prime missioni cattoliche (portoghesi ecpdIsgldimsdgdctg i a i e i a , i e i e poi spagnoli). Non è un'esclusiva. «Il Paese col quale abbiamo avuto complessivamente più rapporti - mi dice Akihito - non è neanche Inghilterra, è l'Olanda». Il discorso cade sullo shintoismo che è la religione nazionale giapponese, il fondamento della mistica, ora ridimensionata, del Tenno. Misterioso punto di incontro fra religione e patria. L'imperatore si affretta a dirmi che l'influenza del buddismo nella storia del Giappone dopo il sesto secolo è stata grandissima e costante. Non dice: «maggiore». Masi capisce che il suo vigile equilibrio politico lo porta a collocare sulla linea di equidistanza le due maggiori religioni che convivono in Giappone nelle stesse persone: 75 per cento shintoisti, 85 per cento buddisti. «Non c'è intolleranza da noi». Akihito ha proseguito, con grande dignità e coerenza, la linea incarnata da suo padre dopo la svolta costituzionale del 1947: quando egli aveva solo quattordici anni ed assisteva da adolescente ad un terremoto che per miracolo riuscì a preservare la corona giapponese ed evitare la logica spietata e semplificatrice di Norimberga. Per la verità egli non dice «mio padre». Dice, secondo la regola giapponese: l'imperatore Showa, cioè il motto che Hirohito scelse per restare nella storia (ogni imperatore deve infatti battezzare il suo tempo con uno slogan attraverso il quale sarà ricordato nei libri di storia). E Showa equivale a «età della pace luminosa». Interi decenni di guerra sembrano quasi riscattati da quell'insegna. Showa: la via della pace. E' la strada su cui si è fermamente incamminato questo erede del la dinastia più antica del moti do, non meno di questo Giap pone gigante tecnologico e apostolo dell'economia di mercato. Qualcuno ricorda quale fu il segreto di Hirohito nel salvare il trono: la franchezza e la lealtà con la quale egli parlò al generale Mac Arthur, nel settembre 194 5, dopo tre settimane di an ticamera. L'apertura del colloquio del l'imperatore col generale: «Vengo da voi per sottopormi al giudizio delle potenze che rappresentate, quale unico re sponsabile delle decisioni politiche e militari e di tutte le azioni eseguite dal mio popolo nel la condotta della guerra». Da allora fu possibile separare le responsabilità della casa imperiale da quelle dei centri di potere militarista e feudale che avevano parzialmente usurpato i poteri dell'imperatore, dalla guerra cino-giapponese alla conquista dell'Asia sud-orien tale dopo Pearl Harbor. Tutte parole, ormai, cancellate dal vocabolario di Akihito. «Abbiamo un nemico da combattere in comune: la corruzione». Mi dice l'imperatore del Giappone nell'ultimo dei no stri colloqui (e ripenso alle cari cature giapponesi sulle sbarre dei due Paesi affiancate). Anche quelle parole sono appena sussurrate. E' un atto di confidenza, che ricambio con lo stesso animo. Giovanni Spadolini