«Così ci purgammo dall'orrore del Reich»; a Lourdes miracoli a metà

«Così ci purgammo dall'orrore delReich»; a Lourdes miracoli a metà BHHHH AL GIORNALE «Così ci purgammo dall'orrore delReich»; a Lourdes miracoli a metà La nostra «resistenza passiva» Su La Stampa del 4 settembre il sen. Bobbio, nell'articolo «Fu resistenza e non lottizzazione», cita il mio libro Sicilia 1943, recentemente ristampato da Sellerio, quale «esemplare testimonianza» dell'esistenza della resistenza passiva ai tedeschi e ai fascisti da parte dei «moltissimi militari deportati dopo la resa dell'8 settembre nei campi di concentramento in Germania». Successivamente, nel numero del 12 settembre, lo storico De Felice obietta che «la testimonianza di Chiesura in Sicilia 1943 è significativa per comprendere uno stato d'animo e un comportamento che, a mio avviso, non possono essere ricondotti al denominatore della resistenza passiva». Viste queste diverse interpretazioni (certamente giustificate dal carattere del mio libro che è più personale che non storico o politico) mi si permetta di completare la mia testimonianza esponendo i fatti che in quel libro non ho trattato. I fatti (che si riferiscono solo agli ufficiali perché nulla so del destino dei militari semplici e dei graduati di truppa) sono i seguenti. Fin dal primo giorno di prigionia, nel campo di smistamento di Francoforte sull'Oder dopo essere stati fotografati, schedati, perquisiti e derubati, e dopo essere stati costretti ad ascoltare il discorso di un gerarca fascista, ci fu chiesto di giurare fedeltà alla Rsi e al Grande Reich. Chi avesse accettato sarebbe ritornato in Italia nell'esercito fascista; chi avesse rifiutato sarebbe rimasto in prigionia. Interrogati uno per uno dagli ufficiali tedeschi, tre soli, quel giorno, cedettero; gli altri, circa tremila, rifiutarono e furono inviati ai vari campi di concentramento in Polonia, Prussia orientale, Germania centrale, Bassa Sassonia ecc. Ma anche nei campi, per 19 lunghi mesi, la pressione fisica e psicologica per farci optare per il fascismo e per la Germania durò ininterrottamen¬ te. Venivano nei campi emissari fascisti che spesso ci convocavano individualmente per colloqui personali. Portavano lettere dove i nostri familiari insistevano disperatamente perché optassimo. I comandanti tedeschi facevano discorsi un po' invitanti e un po' oscuramente minacciosi. Si spargevano voci di campo di sterminio per gli intransigenti. Ad ogni nostro rifiuto c'erano giri di vite nel trattamento. Fame, freddo, sevizie e lunghi terribili trasferimenti ci rendevano deboli; le malattie si diffondevano ed erano fulminanti, molti morivano. Tuttavia la maggior parte di noi continuò a dire di no. Una minoranza cedette all'estorsione. Fu questa una resistenza passiva contro i tedeschi e contro i fascisti? Credo che non vi sia dubbio. La cosa è chiarissima. Meno chiari ne sono i motivi. Le posizioni fra noi erano le più diverse. Alcuni si rifacevano al dovere militare, alla loro fedeltà al re. Altri, pur rifiutando il fascismo, erano pieni di disprezzo anche per il re e per il suo «tradimento» dopo l'8 settembre. In alcuni l'antifascismo era motivato anche ideologicamente, ma in altri era solo rancore per dove ci aveva condotto. Alcuni erano antinazisti convinti, ma altri erano antitedeschi solo per antico odio che si rifaceva alla guerra del '15-'18 o per nuovo odio nato dalle circostanze. Cosa ci univa? Credo una sola e semplice cosa. Tutti noi sapevamo che tutto era stato sbagliato; che c'era stato un grande errore nella nostra storia, nella nostra vita e nel mondo; che noi, ubbidendo e servendo, avevamo partecipato a quell'errore e ne eravamo stati complici; che era necessario smettere di servire, di ubbidire e di essere complici; e che l'unico modo di purgarci da quel passato era di dire di no agli artefici di quell'orrore e continuare a dire di no a qualsiasi costo. Nessuno sapeva ancora a cosa, poi, se fosse sopravvissuto, avrebbe detto di sì. Giorgio Chiesura, Venezia A Biella il Tg3 si vede «criptato» Possibile che dopo anni e anni di proteste qui ne) Biellese non si riesca a vedere in modo decente il telegiornale regionale del Piemonte della Rai tv? Se si prende il 3° canale alle 14 salta fuori nitido il regionale lombardo, che non interessa a nessuno. Se si preme il pulsante n.° 9 del telecomando, fra la nebbia si possono intravedere le ombre di Bianco, Perera o Rosa Maria Brusin fra rumori vari, ma vedute di località niente. Inoltre, il Piemonte quest'anno ha subito un totale oscuramento da parte della Rai tv: Torino, le Alpi occidentali, gli splendidi laghi del Novarese, le dolci colline del Monferrato da anni non appaiono sul video della Rai tv, occupato in permanenza dalla cronaca cittadina di Milano, Roma, dai giudici di mani pulite, dai fatti di mafia. Non c'è da stupirsi se i turisti sono scomparsi da Torino, dal Piemonte. Nessuno sa che esisto¬ no, c'è pure qualcuno che non li ritiene più facenti parte del Bel Paese! Così avanza il declino di ima città e di una regione che furono grandi protagoniste nei secoli passati, nell'oblio e in un rassegnato e mesto silenzio, in un Paese come l'Italia di prepotenti e di violenti, dove ha ragione ed è aiutato dai governanti chi urla più forte. Giulio Lannes, Biella Il professore non ama gli esami orali Sono uno studente di Economia e Commercio a Torino e scrivo questa lettera a nome mio, ma pensando di interpretare il pensiero di migliaia di studenti, non solo della mia facoltà. Vorrei semplicemente sottolineare come sia vergognoso il fatto che un'enorme quantità di esami si svolga unicamente in forma scritta; questo sistema è utilizzato dai professori unicamente per la loro scarsa voglia di «perdere» tempo in esami orali; perché in realtà il lavoro di professore universitario è per loro unicamente un secondo quando non un terzo lavoro; o, ancora, è un modo per fare precedere il loro nome da quel «professor» che li rende più ben visti da aziende che richiedano la loro consulenza. Sostenere un esame solo con la prova scritta rende quest'ultimo aleatorio, non permette allo studente che ha studiato di dimostrare quanto sa e quindi di essere valutato su parametri certi; d'altro canto chi non ha studiato o ha studiato poco può copiare e «rischiare» di passare un esame senza avere un'adeguata preparazione. Sia ben inteso che io non ho nulla contro l'esame scritto, che può anzi avere una validità discriminante, a patto che esso sia seguito da un orale. Al giorno d'oggi, grazie ai corsi semestrali (che durano poi in realtà poco più di due mesi), ci troviamo di fronte a professori che hanno una quantità smisurata di tempo libero; e allora sareb¬ be saggio da parte loro utilizzarne una piccolissima frazione per tener degli appelli degni di tale nome. Il professore deve fare il professore. Mario Digiovanni, Torino Dietro l'omicidio di don Puglisi Scrivo per esprimere la mia indignazione per il mancato arresto dell'ex ministro De Lorenzo. Nonostante l'amarezza e la rabbia, ieri mi ero trattenuto dal prendere la penna, ma oggi, dopo l'assassinio di don Giuseppe Puglisi a Palermo, non ho più potuto trattenermi. Le connivenze che hanno evitato il carcere a De Lorenzo sono le stesse che hanno permesso alla mafia di uccidere don Puglisi. E' la stessa sordida logica di impunità, tracotanza, di disprezzo per i cittadini. Se non si colgono e si denunciano questi nessi, ci si sciacqua la bocca con la giusti zia, si lasciano in libertà rei con fessi, solo perché potenti, e si ar mano nuove mani di assassini. dr. Paolo "Tranchina, Firenze Miracolato e senza soldi Di fronte al miracolato di Lour des (La Stampa del 12 settembre) viene proprio da pensare che questa volta il diavolo abbia avu to un'allieva d'eccezione nella dottrina di fare le pentole e non coperchi: nientemeno che la Ma donna che ha fatto un bellissimo miracolo, dimenticandosi di ge stime le conseguenze per il pove ro miracolato, tornato finalmen te sano come un pesce a più di 50 anni, ma... senza un soldo! Suggerisco modestamente alla Madonna di provvedere con un nuovo miracolo al sostentamento del suo pupillo che, in quanto sano, ha perso la pensione d'in validità e di astenersi per il futu ro dal fare le cose a metà. Valerio Paolucci, Ivrea