Nella corruzione molti padri hanno preceduto ifigli

discussione. Gli interrogativi rimasti aperti dopo un convegno a Trieste LETTERE AL GIORNALE IL LUNEDI' DE O.d.B. Nella corruzione molti padri hanno preceduto ifigli Leva 1922 Gentile signor Del Buono, appartengo alla leva del 1922, l'anno da cui si cominciò a datare l'era fascista. Ho iniziato a indossare divise dall'età di sei anni - balilla - e ho smesso con quella di soldato dopo P8 settembre 1943, sono ormai cinquantanni. Ho avuto la fortuna di evitare la cattura da parte dei tedeschi. Sono poi entrato a far parte di una formazione di partigiani autonomi. Il 25 luglio 1943, il mio battaglione di allievi comandanti di squadra di fanteria era, con altri analoghi, a Roma, a presidio dei campi di aviazione contro il lancio di paracadutisti alleati. Assistetti al tripudio generale per la caduta del fascismo, nelle cui idee ero stato cresciuto, almeno a scuola, non certo in casa. Mio padre - per quanto decorato con medaglia al valor militare già dal luglio 1915, e rimasto con un solo occhio, il sinistro, avendo perso l'altro per conseguenze della guerra - era tuttavia per me un traditore, in quanto dichiarava di essere socialista. E glielo dicevo, abusando della sua pazienza. Così erano socialisti mia madre e i miei nonni e nonne fittavoli contadini del Monferrato. Ero un tipico prodotto dell'atmosfera fascista, quale si respirava in ogni aspetto della società. Mio padre, a cui, poi, non ' avrei mai smesso di chiedere scusa, mi diceva in buon piemontese: «La cagione sempre si dà solo ai matti», commentando così la scritta sui muri: «Il Duce ha sempre ragione». lo lo detestavo. Mi aveva anche negato l'autorizzazione a partecipare alla Marcia della gioventù, organizzata dal fascismo proprio per noi del 1922, l'anno della rivoluzione. Tale marcia si concluse in Libia, di fronte alle truppe inglesi. Il 25 luglio 1943 il Duce finì nel modo ben noto. Tra le immediate conseguenze della caduta del regime, la novità più clamorosa, per me e i miei commilitoni, furono i giornali. Uscivano con parte delle colonne in bianco a causa della censura, ma testimoniavano posizioni politiche diverse e anche contrastanti. Al battaglione eravamo tutti studenti universitari - ce li scambiavamo, ingordi, profondendo nell'acquisto la nostra povera quindicina. Scoprivamo, con totale meraviglia, la discussione, il dissenso, il contributo e il confronto delle idee per l'esigenza di cEtsls chiarire, di trovare il modo di orientarci. Era la democrazia che si spalancava sotto i nostri occhi, che entrava nelle nostre teste e nei nostri cuori. Poi venne l'8 settembre, momento cruciale per la scelta di campo. Non avevamo molti parametri per decidere: contro tedeschi e fascisti oppure con loro. Cominciarono a scadere via via le ingiunzioni per la presentazione nei distretti, e ciascuna era accompagnata con la condanna a morte per i renitenti. Vennero, di conseguenza, i rastrellamenti dei tedeschi e delle brigate nere, che ci cercavano anche servendosi dei cani. Era vita dura e noi, giovani, avevamo una gran voglia di vivere; ma non a tutti i costi. Via via che il tempo passava la persuasione delia scelta giusta si faceva più radicata e sicura. Anche le discussioni nella formazione partigiana ci convincevano a rimanere fermi nella determinazione assunta. Ci dissero «ribelli», «banditi», quando, invece, i ribelli erano loro, i fascisti: lo Stato eravamo noi. Abbiamo cominciato a capire, e per sempre, che il partito unico, coincidente con lo Stato, è la sventura più tragica che possa capitare alla società, qualsiasi scelta essa comporti, a destra o a sini¬ stra. L'uomo che ti paria dal balcone, ti riduce all'anonimato, all'irresponsabilità, ti infiamma di tracotante intolleranza. Certo, non potevamo prevedere che i futuri uomini di partito - per età, i nostri figli - sarebbero scaduti nella corruzione, nella partitocrazia, che il ruolo del servire, informare, aiutare degli esponenti della Resistenza sarebbe diventato, negli indegni eredi, volontà cieca di potere. Ma un conto, io credo, ricordando i giornali del luglio 1943, è il pluralismo sacrosanto della democrazia e un altro è la vergogna attuale, la caricatura indecorosa e tragica che ne è stata fatta. Non esiste democrazia senza pluralismo. Essa ti chiede di partecipare, di assumere con intelligente consapevolezza le tue responsabilità, di confrontare le tue idee con le idee altrui, ringraziandone la diversità dalle tue. Essa fa sì che la tua vita ti appartenga non anonimamente come animali de! gregge, ma come uomo libero, pensante. E' la dignità dell'uomo. Si può certo morire per la causa opposta alla democrazia; ma, con tutto il dovuto rispetto per chi ha pagato con la vita il tributo alle proprie convinzioni, non credo che i morti, per sé, giustifichi¬ no e tanto meno santifichino una causa. Così penso che il proposito di un incontro pacificatore tra il capo partigiano e il capo repubblichino, di cui si è parlato in questi giorni, sia stato, al massimo, una faccenda personale. Voltaire scriveva: «lo detesto ciò che tu pensi, ma sono disposto a morire perché tu possa pensarlo e dirlo». Un partigiano, è noto, ebbe a dire al fascista che lo accompagnava alla fucilazione: «lo muoio anche per te, tu questo non lo puoi dire». Avrà conosciuto Voltaire? La democrazia è un tale valore che riesce a vincere anche i suoi avversari come la luce prevale sulle tenebre, ogni mattina. Per questo è detto, e si deve dire, che la nostra Repubblica è nata dalla Resistenza. Forse potrei anche rinunciare a inviare questa lettera e tenere per me le mie persuasioni. Quando è arrivato il tempo di calare le vele viene la tentazione di uscire dalla scena. Ma a me pare che a noi vecchi si chieda di testimoniare ancora una volta la nostra fede e io lo voglio fare, se non è possibile una pubblicazione, almeno di fronte a un solo lettore, a lei, signor del Buono. Giovanni Guastavigna, Torino Gentile signor Guastavigna, mi pare che la sua lettera meriti di più di un solo lettore. Mi scuso por aver dovuto effettuare qualche taglio causa spazio. La ringrazio molto, concordo con le sue idee, anche se debbo ricordare che, purtroppo, nello scadere nella corruzione, molti padri hanno preceduto i figli. [o.d.b.] Massimo rispetto Signor del Buono, lei non ha alcun diritto - anche se lei è stato partigiano - di chiamare la Repubblica sociale italiana «state- rello da operetta». Migliaia di uomini hanno offerto la vita a quello staterelk) da operetta. Un partigiano, decorato al valore, giornalista e scrittore di fama, Giorgio Bocca ha scritto recentemente (Repubblica, 18 agosto): «Decine di migliaia di giovani erano andati con Mussolini pur sapendo che era definitivamente vinto. Noi a quella resa dei conti guardiamo con rispetto». Esattamente con il rispetto che noi abbiamo di chi, nella Resistenza, ha militato in buona fede, disposto a sacrificare la propria vita per un ideale... Ugo Franzolin, Roma Gentile signor Franzolin, io non sono stato partigiano, sono stato Imi nei Lager tedeschi dopo l'8 settembre, con seicentomila altri, in onore di un giuramento. Non mi sognerei mai di disprezzare i morti in guerra per qualsiasi causa. Nutro per loro il massimo rispetto. Ma, essendo stato obbligatoriamente assente dall'Italia 18 mesi, al mio ritorno ho letto e studiato atti e giornali di Salò ed è da quelle fonti che ho tratto il mio giudizio. I combattenti stessi ne sono stati vittime. [o.d.b.]

Persone citate: Del Buono, Duce, Franzolin, Giorgio Bocca, Giovanni Guastavigna, Guastavigna, Mussolini, Ugo Franzolin

Luoghi citati: Italia, Libia, Roma, Salò, Torino