Storici pensate anche al presente

147 discussione. Gli interrogativi rimasti aperti dopo un convegno a Trieste Storici, pensate anche al presente Molte analisi sul «farsi» e «disfarsi» della nazione italiana Servono risposte sulle sfide delfederalismo e deH'«etnodemocrazia» AZIONE e nazionalità» è un tema familiare alla storiografia, anche se da tempo era diventato marginale ri( 1 spetto ad altri. Davanti all'esplosione di nazionalismi, etnicismi, localismi che ridanno centralità o rimettono in discussione la nazione, ne inventano i surrogati o gli equivalenti, gli storici dovrebbero essere i più attrezzati a fornire strumenti di comprensione e orientamento. Puntuale quindi è stato il convegno conclusosi sabato a Trieste, promosso dalla Giunta centrale degli studi storici, interamente dedicato alla questione della nazione italiana. E' stata una manifestazione di alto contenuto scientifico, che ha ripercorso con grande competenza tutti i capitoli del «farsi» e «disfarsi» della nazione italiana. Eppure, il convegno è rimasto reticente su punti essenziali della questione nazionale oggi. E' rimasto oscuro cioè se l'estinzione del senso di appartenenza nazionale in Italia sia oggi irreversibile; se essa sia responsabile di taluni aspetti specifici della crisi del sistema politico; se la ripresa della nostra democrazia debba contare anche su fattori di integrazione solidale, che ricupera un nuovo senso civico nazionale; se e come i mutamenti istituzionali in senso federalista-regionalista incidano sul senso di appartenenza nazionale. Sono questioni vaste e complicate che non possono essere risolte in un convegno. Ma erano nell'aria e soltanto nell'ultima seduta sono state messe a fuoco come punti sui quali occorrerà riflettere sistematicamente. Una prima risposta molto cauta era venuta subito da De Felice che ha collegato il venir meno del senso dell'appartenenza nazionale alla crisi di funzionamento della democrazia. Ha inquadrato entrambi i fenomeni nel contesto della fine di un intero ciclo storico. La sua diagnosi pessimistica è suonata alle orecchie di qualcuno, erroneamente, addirittura come una giustificazione del ripiegamento etnico e localista di molti italiani. In questo quadro alla domanda se e come si possa ricuperare nuovo senso civico e solidale ricostruendo criticamente la storia nazionale italiana, soprattutto dal '43 a oggi, la risposta di De Febee è stata netta e amara. No, dice, non ci sono elementi su cui fondare un'operazione di ricupero storico del senso nazionale. Di analoga opinione, anche se diversamente argomentata, è Galli della Loggia, il cui intervento ha descritto l'annichilimento dell'idea di nazione con l'8 settembre 1943 e le sue conseguenze sulle originarie carenze di legittimazione della Resistenza e quindi della Repubblica. L'analisi di Galli della Loggia rende ancora più acuto e urgente l'interrogativo: se la democrazia italiana è costruita su finzioni e manipolazioni, a che serve lamentarci della sua inconsistenza e inefficienza? Che senso ha preoccuparsi del suo rinnovamento se la critica e la ricostruzione anche più impietosa della storia italiana non offre riferimenti positivi? Dove porta questo «revisionismo» radicale della storia italiana più recente? Giovanni Spadolini ha reagito vivacemente a questa problematica ribadendo la validità della conti- nuità storica tra Risorgimento e Resistenza, come fondamento della Repubblica. Capisco la prospettiva del presidente del Senato, ma capisco anche le argomentazioni critiche «revisionistiche» degli storici. In ogni caso non si tratta di rinfrescare o inventare nuovi «miti fondanti» in sostituzione dei vecchi. Occorre invece essere convinti che il nesso tra efficienza istituzionale e senso civico solidale ha bisogno di una storia comune in cui ritrovarci. Vorrei aggiungere un altro ordine di considerazioni. Nel cuore e nella testa della gente la lealtà politica e il senso della cittadinanza non discendono da astratti princìpi universali ma coesistono con l'identificazione con una concreta comunità e territorio. Questa verità è stata ignorata dagli studiosi convinti che la perdita di rilevanza della identità nazionale, assorbita e sostituita dalle molte identità particolari, rafforzasse comunque un universalismo democratico contro il particolarismo della nazione. Non è stato così. E ora questi studiosi si trovano disarmati di fronte al leghismo che ripropone la centralità della comunità territoriale regionale ancorando in essa ogni criterio democratico. Siamo davanti a una variante della «etnodemocrazia»: cioè la pratica dei propri diritti civili e politici entro confini autodefiniti e autodefinibili, ritagliati in polemica con quelli nazionali tradizionali. Ci si sente cioè cittadini davvero soltanto su un territorio «riappropriato», con una sostanziale indifferenza per chi ne rimane fuori. Dobbiamo chiederci se questo potenziale etnocentrico, implicito nel leghismo, non entri in collisione con la concezione universale della cittadinanza che, bene o male, ha trovato punti di sicurezza nello Stato-nazione tradizionale. Se oggi ci domandiamo se siamo davvero una nazione e se dobbiamo continuare a esserlo, la ragione va cercata in quarant'anni di vita di una «Repubblica dei partiti», che non ha saputo creare nel contempo una vera «nazione di cittadini)). Una nazione dove la cittadinanza non è un semplice catalogo di diritti legittimi, ma un vincolo recipro- co, motivato da una comune appartenenza storica diventata fonte di lealtà e di solidarismo civico. Così intesa, la nazione non dipende da una particolare struttura della forma-Stato, tantomeno da quella centralistica. Essendo una costru zione storica, la sua forma politicoorganizzativa varia nel tempo. Un conto è la forma-Stato, un altro è l'identità nazionale. La questione del federalismo di venterà centrale nel dibattito poli tico italiano. Ma viene caricata da troppe aspettative, soprattutto da chi brandisce l'idea di uno Stato re gionale-federale come un'arma pu nitiva della nazione storica. Da chi considera il federalismo non come una possibile, augurabile o neces saria trasformazione istituzionale dell'attuale struttura statale, ma come lo smascheramento della natura di mera «espressione geografi ca» dell'entità storica chiamata Italia. Per reazione altri, in nome del l'integrità dell'unità nazionale, rischiano di difendere strutture am ministrative e politiche spesso corresponsabili dei fenomeni dege nerativi che sono all'origine dei processi di disaffezione nazionale Questo è il nodo cruciale: quando per troppo tempo e impunemente la politica nazionale produce inefficienza e corruzione, allora vengono intaccati i vincoli che tengono insieme una nazione. Non so se è troppo tardi per ricordare a noi stessi che una nazio ne di cittadini non cancella affatto la pluralità delle culture (o delle etnie come si dice oggi), incarnate da gruppi sociali particolari o in sediate in aree geografiche parti colari. Non è neppure un colpo di spugna su ricordi di profondi con trasti e di sofferenze unilateral mente imposte. Anzi, il riconosce re questo intreccio di culture e di memorie diverse, di contrasti sto rici vissuti insieme, dovrebbe es sere un fattore di formazione di quella identità nazionale che di venta motivo di lealtà e di solida rismo civico. Gian Enrico Rusconi Dove porta il «revisionismo» radicale sulla prima Repubblica? Sopra Giovanni Spadolini, a lato Renzo De Felice, intervenuti al convegno di Trieste. Nella foto grande un raduno leghista

Persone citate: De Felice, Galli, Gian Enrico Rusconi, Giovanni Spadolini, Renzo De Felice

Luoghi citati: Italia, Trieste