«Povero New Yorker, sei come la corte dei Borgia»
«Povero New Yorker, sei come la corte dei Borgia» Polemica nel più prestigioso settimanale americano che da 11 mesi ha cambiato rotta: i rimpianti di un collaboratore «Povero New Yorker, sei come la corte dei Borgia» Si lavorava mesi per articoli affascinanti come romanzi, ora si inseguono pettegolezzi F URIO Colombo ha giustamente messo in rilievo il lato più immediatamente attraente del nuovo assetto del New Yorker, il più celebre settimanale americano, che da undici mesi è in mano all'inglese Tina Brown: molto più di prima, le copertine e gli stessi articoli sono legati all'attualità. Ma sia concesso al sottoscritto, che ha collaborato qualche volta con il vecchio New Yorker e adesso si sente completamente spaesato, di aggiungere qualche considerazione. Secondo una fonte attendibile, il New Yorker, malgrado i suoi 626 mila abbonati e milioni di lettori, stava perdendo circa 10 milioni di dollari l'anno prima dell'arrivo della Brown, e si capisce che l'editore S. I. Newhouse volesse cambiare qualcosa. Ma la Brown, che aveva fatto del moribondo mensi¬ le Vanity Fair una rivista di grido (qua un articolo di pettegolezzi sulla guerra tra Woody Alien e Mia Farrow, là una copertina dedicata a Liz Taylor, preservativo in mano), a molti non sembrava la persona più indicata per la direzione del New Yorker, noto per il tono pacato e civile e per l'astensione da argomenti sensazionalistici. Eccetto i mensili Atlantic e Harper's (che poi hanno altri scopi), il New Yorker è stato probabilmente l'unico periodico americano di grande tiratura che trattasse dettagliatamente e non in modo riduttivo anche argomenti difficili e persino ricercati, dedicando loro articoli lunghi a volte quanto un libro, divisi in due o più puntate. Questa operazione di approfondimento veniva presentata tramite una scrittura così limpida e accogliente che di solito invogliava il lettore a seguire l'autore anche su sentieri irti di ostacoli. Si leggeva di personaggi interessantissimi ma non a tutti noti; si leggevano dettagliate analisi di gravi situazioni politiche, domestiche e estere, prima che i giornali le scoprissero; si leggeva di problemi sociali e ambientali prima che scoppiassero. Certo, non tutti gli argomenti interessavano a tutti i lettori, e ogni tanto veniva fuori qualche articolo noioso o addirittura sbagliato, ma il livello medio era molto alto. A un lungo «pezzo» uno scrittore poteva lavorare per mesi o persino anni prima di sottoporlo alla capillare procedura redazionale, sotto la dura ma amorevole guida dei precedenti direttori Harold Ross (1925-'50), William Shawn (1950-'87) e Robert Gottlieb (1987-'92). Un grande staff di redattori, esperti di grammatica e controllori di fatti, sempre in collaborazione con gli stessi autori, dedicava settimane alla cura di ogni frase e ogni citazione. E i risultati valevano la pena. Ricordo un lunghissimo e complicatissimo articolo a puntate di Dan Hofstadter sul traffico illecito di oggetti d'arte antichi di Cipro, un articolo affascinante quanto un grande romanzo. Ricordo la rubrica di moda - argomento che avevo sempre trovato assolutamente privo di significato - di Holly Brubach, la quale si serviva dei vestiti e degli altri attrezzi del nostro mondo per tessere sottili commenti sociali. Ricordo un complesso racconto, geniale e coinvolgente, di Alice Munro ambientato nelle foreste quasi vergini dell'Ontario a metà dell'800. Adesso tutto questo è cambiato (tanto è vero che quei tre nomi, per esempio, assieme a tanti altri tra i migliori, non li vedo più da diversi mesi sulla rivista), proprio perché adesso il New Yorker si preoccupa della propria immagine come commentatore di attualità. Adesso gli articoli sono mediamente più brevi e superficiali; molti mi sembrano meno curati a livello redazionale, e spesso parla- no degli stessi personaggi e avvenimenti di cui si può leggere su tanti altri giornali e riviste. Il New Yorker ha sempre avuto una forte componente femminile, dai tempi delle leggendarie collaboratrici Lillian Ross e Katharine White fino alle columnist Jane Kramer («Lettera dall'Europa») e Elizabeth Drew («Lettera da Wa¬ shington»), e ai critici Pauline Kael e Penelope Gilliatt (cinema), e Edith Oliver e Mimi Kramer (teatro). Stranamente, però, dall'arrivo della Brown il tono della rivista sembra più macho; sfoggia un po' troppo di quell'aggressività che caratterizzerebbe la stessa città di New York. Forse riflette la situazione interna della rivista: «Prima si diceva che il New Yorker assomigliava a una corte bizantina, per la complessità dei rapporti professionali intemi - mi ha detto recentemente una persona che vi lavora da molti anni -, ma adesso bisognerebbe paragonarlo alla corte dei Borgia». E poi c'è la ma nia di essere à la page: «Prima, c'era qui l'atmosfera pacifica di un trimestrale universitario, adesso c'è la frenesia di un giornale». Harvey Sachs «Nei tempi felici i fatti non solo si approfondivano ma si prevedevano» Da quando l'inglese Tina Brown è al timone del «New Yorker», il settimanale è radicalmente cambiato
Luoghi citati: Cipro, Europa, Liz Taylor, New York
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