Anisti,fate silenzio

La vita, le passioni e gli odii del grande studioso: a 84 anni ha deciso di raccontare i suoi segreti La vita, le passioni e gli odii del grande studioso: a 84 anni ha deciso di raccontare i suoi segreti fU Anisti,fatesUenzk) W| LONDRA I L gran vegliardo punta il I gomito sul tavolo monacaI le del suo ufficio. «Il rumo=J re moderno uccide l'arte», sillaba sir Ernst Gombrich, una delle intelligenze più intimidatorie di questo secolo. Il fragore del tuono e i rovesci di pioggia sul giardino davanti al Warburg Institute scuotono l'esile fiamma che gli cova in fondo agli occhi. Leva lo sguardo acceso agli scaffali della libreria, unico ornamento della sua cella d'asceta: «Gli artisti di oggi fanno molte chiacchiere. Ma al loro mestiere è indispensabile il silenzio». A 84 anni ha deciso finalmente di raccontare la sua vita, in un libro intervista con Didier Eribon appena uscito in Inghilterra, e che verrà pubblicato in Italia da Einaudi. E' una lunga confessione dal titolo Un interesse lungo una vita. La seconda metà del volume è un dialogo sull'arte che culmina nella tesi di Gom: brich più nota: «L'arte è una cosa che non esiste; esistono solo gli artisti». Una certa propensione alle burle, benché dotte, pepava il pudore di studioso del giovane Ernst. Al Warburg Institute, l'organizzazione di ricerca nel campo dell'arte che avrebbe finito per dirigere con la tenerezza e la temibilità di un padre, diventò un personaggio proprio grazie a uno scherzo: a quell'indirizzo londinese spedì nel 1935 un pacco da Vienna al suo amico Otto Kurz, imitandonealla perfezione la calligrafia. Quando l'involucro arrivò a destinazione, fece il giro dell'istituto: «Come ha fatto Kurz a mandarselo da solo, se è sempre rimasto qui?». Gertrud Bing, una responsabile del centro fondato ad Amburgo da Aby Warburg ed emigrato in Inghilterra dopo l'ascesa di Hitler, si divertì a tal punto che quando il direttore Saxl le domandò un parere sull'assunzione per due anni di Gombrich, mise una buona parola. (Altre arguzie: il trentenne Ernst si cimentò con una lettera in metri latini a un funzionario ministeriale patito di letteratura medievale, per implorare nuovi scaffali: e li ottenne). Professor Gombrich le piace ridere? «Sicuro. Ma sulle vecchie caricature è difficile. Mi diverte invece molto Saul Steinberg, un caricaturista moderno che disegna per il New Yorker». Lei racconta di essere stato salvato da «Save the cliildren» all'età di nove anni, quando, quasi morto di fame, venne mandato a rimettersi in carne in Svezia. Quindi tornò a Vienna, dove non ricevette mai un'educazione ebraica. Perché? «I miei genitori avevano ricevuto un'istruzione secolare, e non sapevano quasi niente sulla tradizione ebraica. Le personalità della Vienna di quegli anni, che gravitavano attorno alla mia famiglia, le ho scoperte nella nostra biblioteca: mio padre era un grande amico di von Hofmannsthal, mia madre conosceva benissimo Mahler. La persona principale nella nostra casa era il violinista Adolf Busch». Ma a quali contemporanei guardava con più attenzione? «Non a molti: l'ispirazione preferivo trovarla in Goethe. Non sono un "groupie"». Lo scetticismo verso Schònberg, lei sembra averlo ereditato proprio da sua madre. «Sì: mia madre era pianista e non voleva tenere concerti con lui perché diceva che non teneva il tempo. Io, come il mio amico Popper, non credo nelle ideologie progressiste in arte: per me, Schònberg non era il Messia». Il suo trasferimento in Inghilterra nel 1936 non è stato un esilio, ma un passaggio accademico. «Proprio così. A Vienna sono tornato quello stesso anno per sposarmi e anche per finire quel libro sulle caricature. Ma sono rientrato a Londra prima dell'Anschluss. Dopo, è stato molto difficile far venire qui i miei genitori. Mio padre, che era avvocato e uomo di grande umiltà, ha dovuto adattarsi anche a fare il dattilografo. Mia madre si è messa a dare lezioni di pianoforte». Come si lavorava all'Istituto Warburg durante la guerra? «Eravamo tutti accademici. L'unico che aveva un lavoro diverso ero io, che avevo trovato un impiego alla Bbc». Dove se ne stava otto ore al giorno con una cuffia in testa a tradurre i discorsi tedeschi. «Sì, prima di diventare supervisore. Era un gruppo internazionale, un campione di società molto interessante. Era una vita artificiale: spesso facevo il turno serale, fino a mezzanotte e oltre. Eravamo isolati dalla popolazione. Andavo a lavorare in bicicletta, ma durante le giornate libere non potevamo uscire di casa dopo il tramonto: eravamo pur sempre nemici stranieri. Una bella seccatura». Ed è stato lei il messaggero della morte di Hitler a Churchill. «Già. Ho ascoltato e tradotto la notizia, che è stata immediatamente comunicata per telefono a Downing Street». Lei descrive le circostanze fortuite che generarono la «Storia dell'arte» per giovani: l'editore di Phaidon era a corto di manoscritti e richiese alla figlia sedicenne il placet sui primi capitoli. «Proprio fortuite non furono: avevo già pubblicato una Storia del mondo per i piccoli. Comunque ho scritto il mio libro più famoso come se fosse un compito». La sua amicizia con Popper: è mai stato tentato di scrivere un libro con lui? «No di certo. E' troppo perfezionista: scrive e riscrive, fa revisioni di tutto. Almeno così ognuno fa i suoi sbagli. Ci sentiamo al telefono diverse volte ogni settimana». Lei si è avvicinato molto presto all'Italia, con la sua tesi di laurea sugli affreschi di Giulio Romano a Mantova. In che rapporti è con l'Italia? «L'Italia non sono gli italiani: io non amo queste generalizzazioni. Ho molti amici, ci vado per studiare, in vacanza, e anche per consolarmi». Che cosa pensa del nuovo terrorismo, che fa saltare in aria i tesori d'arte italiani? «Credo che i terroristi siano anche matti: soffrono di una patologia megalomanica. Ma è certamente una forma di pubblicità: quando si attaccano gli Uffizi, tutto il mondo sa che questo è accaduto. La cosa sorprendente è che questi terroristi non rivendicano i loro gesti: chi è stato, e perché? Credo che il motivo principale sia danneggiare l'economia e il turismo. Ma il fanatismo bisogna combatterlo con la ragione». Come giudica la politica di tutela dei beni culturali in Italia? «Restaurare tutto è quasi impossibile: pensiamo a Venezia. Ma si potrebbe cominciare con l'aprire i musei e col pagare meglio i custodi: Brera, l'Ambrosiana, il museo delle Terme sono soltanto gli esempi più clamorosi». E' sempre stato felice di vivere in Inghilterra o ci sono stati momenti in cui avrebbe desiderato essere altrove? E' mai stato tentato dall'America? «Veramente no. Sono stato parecchio in America, è una nazione generosa, mi piace molto, ma è più soggetta alle mode intellettuali come ìapolitical correctness; sono stato anche invitato a trasferirmici, ma ho rifiutato. Mi sono già mosso una volta per venire qui, e questo basta per una vita». Non voglio tirare il ballo il Volksgeist, il concetto dello «spirito di un popolo» che lei aborrisce, ma che cosa le piace degli inglesi, che l'ha indotto a restare qui? «La semplicità, l'assenza di ideologia, il pragmatismo: anche nella vita accademica, non ci sono quella retorica e quei conflitti che ci sono, per esempio, in Italia. Qui i partiti non contano». L'«ecologia dell'immagine», cioè le condizioni ambientali in cui l'immagine vive, è uno dei suoi temi preferiti Wim Wenders dice che le immagini si sono prostituite alla pubblicità. Lei crede che la pubblicità sia l'ecosistema delle immagini di oggi? «No. Ci sono certi poster, certe illustrazioni, che sono vere e proprie opere d'arte. Certi grafici o designer oggi hanno più talento e sono più interessanti e più grandi degli artisti cosiddetti seri». Nell'ultima edizione della «Storia dell'arte» ha aggiunto qualche paragrafo sulla fotografia. Vi includerà anche la pubblicità? «Ho menzionato questo problema nel libro: non condivido la separazione tra arte vera e arte commerciale». Nell'inconscio del pubblico, l'artista è ancora un mago, un eroe? «Non più. E' stato sostituito dai cantanti pop». Lei definisce la storia «un formaggio coi buchi». Quali enigmi vorrebbe svelare? «Il gènio. Ma nonio si può rivelare: soltanto ammirare». Come facciamo' a sapere se un maestro è un grande? «Non è mai possibile saperlo». E' stato mai tentato dalla politica? «No. Sono pessimista sulla possibilità di cambiare il mondo». Ma fa appello alla «vecchia nozione dell'unità dell'umanità» per resistere al razzismo. «Sì. Il nazionalismo e il collettivismo del noi e loro sono un'offesa allo spirito umano». Maria Chiara Bonazzi «Oggipittori e scultori fanno più chiacchiere che opere» Politica, storia, e società: «Cosa mi divide dall'amico Popper he opere» à: ico Popper fU la temibilità un personagno scherzo: a A lato: Ernst Gombrich. A sinistra: Mahler. In alto: Karl Popper. Il disegno è di Saul Steinberg. A lato: Ernst Gombrich. A sinistra: Mahler. In alto: Karl Popper. Il disegno è di Saul Steinberg.