Mogadiscio uccisi in tuta da ginnastica

La tragedia proprio il giorno in cui il nostro contingente stava lasciando la capitale somala La tragedia proprio il giorno in cui il nostro contingente stava lasciando la capitale somala Mogadiscio, uccisi in tuta da ginnastica Colpiti da cecchini, i due para non erano in servizio MOGADISCIO DAL NOSTRO INVIATO Proprio nel giorno in cui gli italiani hanno abbandonato Mogadiscio, due nostri militari sono stati uccisi. Un nuovo tributo di sangue pagato dal nostro Paese per questa missione umanitaria che assume sempre più le caratteristiche di una vera guerra. Alle prime ombre della sera tutta la zona settentrionale di Mogadiscio è diventata un teatro di battaglia: violente sparatorie sono in corso contro i check-point presidiati dai pachistani e fra gruppi di miliziani di clan rivali. Alle 19,15 i soldati degli Emirati Arabi che presidiano la strada del lungomare, nel quartiere Amarwin, sono stati bersagliati dal fuoco dei cecchini. Gli arabi hanno risposto, sparando anche dal tetto del carcere, nei pressi di Porto Nuovo, dove c'è ancora un piccolo presidio italiano. Durante la sparatoria, quattro paracadutisti della Folgore, del reparto logistico contingenza, non in divisa perchè fuori servizio ma armati, che stavano facendo ginnastica, sono finiti sotto il fuoco dei cecchini: due sono riusciti a mettersi in salvo al riparo dei sacchetti di sabbia, i caporali Giorgio Righetti, di Marina di Carrara e Rossano Visioli, di Casalmaggiore (Cremona), ventenni, sono stati colpiti, uno è morto subito, l'altro, ferito gravemente, è deceduto mentre si aspettava l'arrivo dell'eliambulanza. Sulla zona sono intervenuti gli elicotteri americani che hanno mitraglito la zona dove erano appostati i cecchini. La situazione è molto confusa, si sentono spari da tutte le parti. Un elicottero americano ha aperto il fuoco per errore contro un'ambulanza del nostro contingente che stava accorrendo a Porto Nuovo. Il nuovo lutto ha colpito il contingente italiano il giorno della partenza da Mogadiscio. «Adesso gli americani sono padroni di Mogadiscio», è l'amaro commento di un ufficiale del Col Moschin al posto di blocco Nazionale: dopo nove mesi il contingente italiano lascia la capitale somala fra gli insulti e i lazzi degli abitanti e si ritira a Balad. Da questa avventura usciamo con una grossa caduta d'immagine: tutto quello che è stato fatto di positivo, le migliaia di tonnellate di aiuti distribuiti, le scuole che sono state aperte, i poliambulatori che hanno assistito migliaia di persone sembra svanito nel nulla. La memoria dei somali è molto corta e adesso finiamo in provincia, lontano da Mogadiscio, esclusi dal tavolo dove si decide il futuro di questo Paese. Ho visto la tristezza negli occhi dei militari che ieri mattina abbandonavano gli ultimi presidi ancora sotto il nostro controllo. Il capitano Umberto Albarosa, comandante del distaccamento che presidiava il checkpoint Ferro, è entrato per l'ultima volta nella baracca dove aveva allestito una scuola per i bimbi del quartiere con i quaderni, le penne, i libri, i giocattoli inviati dalle famiglie dei soldati. La piccola stanza era vuota, i bambini erano tutti per strada, impegnati a saccheggiare i ricoveri appena abbandonati e a sbeffeggiare i nostri militari, gli stessi che ogni giorno dividevano con loro le gallette e la cioccolata delle razioni da combattimento. Dalle 10,30 di ieri Ferro è presidiato dai militari malesi. Alle 10, mentre i nostri elicotteri sorvolavano la zona, è arrivato il colonnello americano Ward, comandante delle operazioni militari di Unosom, accompagnato da tre ufficiali e un agente della Cia, in borghese ma con un temibile fucile a pompa sottobraccio. Sono stati accolti da applausi e manifestazioni di giubilo dalla folla, circa trecento persone, che fino a quel momento aveva seguito in silenzio i preparativi dei nostri soldati. Quando i nostri automez¬ zi si sono messi in moto, sono volati gli insulti e le grida ostili: «Italiani via», «Italiani assassini», «Italiani vaffan...». Ho chiesto ad un gruppo di giovani perché tutta questa ostilità nei nostri confronti. Ecco l'incredibile risposta: «Gli americani sono per la pace, voi italiani invece avete fomentato la rivalità fra i clan, voi volete i disordini, siete amici di Aidid e non della Somalia». Qui, nella zona degli Abgal, le accuse mosse dal rappresentante di Boutros Ghali, l'ammiragho Howe, di nostri presunti accordi sottobanco con i miliziani del generale Aidid, di nostri favoritismi verso il clan degli Aberghidir, hanno creato un pesante senso di sfiducia e di antipatia verso i nostri militari: dimenticato in un attimo tutto quello che abbiamo fatto, ora siamo considerati dei «traditori» e la gente accoglie con applausi l'arrivo dei blindati malesi. Identica l'atmosfera, un'ora dopo, al check-point Nazionale, uno dei punti caldi di Mogadiscio, al confine fra il territorio dei due clan rivali. Qui devono venire i pachistani, ma dopo un'ora d'attesa non si sono ancora fatti vivi. A mezzogiorno, l'ora fissata per il cambio, i nostri soldati incominciano a ritirarsi. Il colonnello Ward, che fino a quel momento si godeva un festoso bagno di folla, stringendo mani con grandi sorrisi, si allarma e chiede al maggiore Marini, vice comandante del Col Moschin, di ritarda¬ re la partenza. Ma il comando italiano è irremovibile, per radio viene ribadito l'ordine di lasciare il check-point. La folla che è andata via via aumentando, prende d'assalto i ricoveri, porta via i sacchetti di sabbia, si impadronisce di travi, grate di ferro, tutto quello che trova. Gli americani sono nervosi, Ward dice rabbioso a Marini: «Non potete abbandonare i soldati delle Nazioni Unite», i somali sembrano intuire che qualcosa non va e diventano minacciosi. Il maggiore Marini, combattuto fra il dovere di eseguire l'ordine impartitogli e il timore che possa accadere qualcosa di grave, temporeggia, rassicura il proprio comando che lo sganciamento è in atto, ma non fa salire i suoi uomini sui blindati. Finalmente in fondo alla strada compaioni i carri armati pachistani: avanzano lentamente, tutti gli portelli chiusi, nessun soldato in vista. Il colonnello Ward si rinfranca, i nostri incominciano ad allontanarsi, inseguiti da insulti e grida di scherno. Sempre ieri, colpi di mortaio sono stati sparati sul compound dell'ambasciata Usa, sede del comando Unosom: undici feriti, un americano, gravissimo, due norvegesi, due pachistani e dipendenti somali delle Nazioni Unite. La notte che scende sulla capitale si annuncia carica di tensione: si sente sparare dappertutto. Francesco Fomari L'agguato a Porto Nuovo Due soldati sono riusciti a salvarsi Elicottero Usa mitraglia per sbaglio una nostra ambulanza

Persone citate: Aidid, Boutros Ghali, Giorgio Righetti, Howe, Moschin, Rossano Visioli, Umberto Albarosa