Malraux quel buffone francese

Gli ironici diari di Wilson: incontri, pettegolezzi e critiche sprezzanti Gli ironici diari di Wilson: incontri, pettegolezzi e critiche sprezzanti Malraux, quel buffone francese «Hemingway, il vanesio, si fece saltare le cervella in modo così poco dignitoso» a a o a i , i i e a aiio A sorridere, leggendo i diari degli Anni Sessanta di uno scrittore davvero fuori dell'ordinario come Edmund Wilson, sentirlo cedere alla civetteria d'identificarsi con un personaggio dei racconti di Tornasi di Lampedusa, il vecchio umanista eccentrico e arrogante di Lighea che in gioventù aveva amato una sirena. Perché c'è tutta la vita di questo critico e scrittore americano in quel racconto che lo «incanta»: una vita che, a pochi anni dalla fine, è ancora dominata dalla voracità intellettuale almeno quanto dalla totale e perpetua resa al fascino femminile. Chi ha cominciato a leggere i diari di Edmund Wilson dal primo, bizzarro e magico volume degli Anni Venti, può facilmente indovinare cosa l'attenda in quest'ultimo di quasi 1000 pagine: The Sixties, pubblicato recentemente dalla Farrar Straus & Giroux a New York con la curatela di Lewis M. Dabney. Lo stesso vortice di riflessioni letterarie e politiche, osservazioni mondane e ritratti, che hanno fatto sognare a più di un editore italiano un volume di brani scelti: senza che poi nessuno abbia avuto l'energia di portarlo a termine, per far conoscere il lato più privato - e forse migliore - di un autore che qui è conosciuto soprattutto per La contea di Ecate (Mondadori), e alcuni saggi negli Elefanti garzantiani. Solo che quella gigantesca fucina di parole che nei primi diari era esaltata dall'effetto di «highballs» di whisky e ghiaccio alti come torri, ora ne porta le cicatrici. Ma che saranno mai un po' di gotta e angina quando si ha ancora tanta forza: Wilson è, a oltre sessant'anni, un cronista amabile e sottilmente sprezzante come nessuno, e il suo diario diventa nelle mani del lettore un mezzo per rivivere il clima intellettuale dell'America elegante e kennedyana dell'ultima decade che abbia avuto ancora un poco di idealismo. E' evidente che nel 1960 Edmund Wilson fosse ancora affascinato dall'idea di vivere la vita come un romanzo, che gli aveva fatto apprezzare e lanciare come critico, a suo tempo, gli amici Fitzgerald, Hemingway e Dos Passos. Ma la sua voce te starda e acuta che sulla spiaggia di Cape Cod commentava awe nimenti mondiali e letture di giornata - e che si traduceva in articoli del genere più vario sul New Yorker, dalla spiritualità di Pasternak alla resistenza degli indiani irochesi nelle loro riserve - cominciava a incrinarsi «Alla mia età, mi trovo ad alternare momenti di fatica e indifferenza in cui mi sento pronto ad abbandonare la lotta, ad attimi di crescente ambizione quando sento che potrei fare più di quanto abbia mai fatto pri ma». Erano lontani gli anni squattrinati del Greenwich Vii lage e delle stanze in subaffitto e quelli del marxismo e della simpatia per la Russia stalini sta: ora, quando non lo si vedeva pedalare in pigiama vicino alla sua casa di campagna di Talcot tville, l'autore di Stazione Fin landia, del Pensiero multiplo e della Ferita e l'arco, leggeva per il proprio piacere Balzac e To masi di Lampedusa in una bella casa di Cape Cod, o faceva mon danissime puntate all'Algon quin Hotel e al Princeton Club di New York, con la sua quarta, pa ziente e sottile moglie Elena von Mumm, che aveva portato una sfumatura di aristocrazia russo tedesca in una vita già molto co smopolita. E infatti non a caso i diari ec cellono in rapidi ritratti di intellettuali incontrati tra Roma, Parigi, Budapest e New York: Berlin che regalmente disdegna il Dottor Zivago che a Wilson era piaciuto tanto, Praz che cerca di affezionarsi solo alle cose e non agli uomini, circondandosi di chincaglierie impero (non di grande gusto), Singer che lo affascina con la sua curiosità per il soprannaturale, e Malraux il millantatore, il buffone francese che alla Casa Bianca arriva ad elogiare pubblicamente gli Stati Uniti per la generosità con cui hanno rinunciato a far uso di un'arma come l'atomica, dimenticandosi semplicemente Hiroshima. «... Sono un uomo degli Anni Venti», scrive Wilson che detestava l'ambiente claustrofobico dell'accademia sebbene all'epoca insegnasse a Harvard. «Mi aspetto ancora qualcosa di ecci- tante: alcol, conversazione animata, gaiezza: uno scambio disinibito di idee». E mentre sfoglia un album di fotografie a casa della figlia di Fitzgerald, ricorda quando Scott, prima di sposare Zelda, gli confessava «se morisse non me ne importerebbe, ma non potrei sopportare di vederla sposare un altro». Ora la morte di Hemingway, che spazza via i resti della sua lost generation, lo deprime soprattutto per il modo, «non dignitoso», di farsi saltare il cervello. «Ma la disperazione nelle sue storie era sempre stata tangibile», scrive Wilson, prendendosela con la maggioranza dei lettori che nei suoi libri non vedeva altro che personaggi di sanguigna vitalità. «E lui era ab¬ bastanza vanitoso da cascarci e recitare questo ruolo per la stampa popolare». Ecco che cosa ci aveva guadagnato Hemingway a identificarsi con una falsa persona. No, si direbbe che a dispetto delle sue inclinazioni romantiche, Wilson riconosca involontariamente maggior concretezza a personaggi che alla vita intellettuale hanno preferito un bagno di realtà: non i Connolly, gli Spender, gli Auden che sebbene amatissimi formano «la gelatina del mondo omosessualletterario londinese», ma gente come il vecchio amico e futuro segretario di Stato Arthur Schlesinger. O lo stesso Kennedy, che ha il dono di incantare il suo in. terlocutore, «piegandosi in avanti, ascoltando attentamente e seriamente, rispondendo subito e senza esitazione alle domande...». Si fa un gran parlare, all'epoca, dei modi spicci del Presidente con l'altro sesso, e Wilson, per contrasto, sembra proprio un vecchio professore pronto a innamorarsi ad ogni angolo di strada di una qualche sirena. Il suo cattivo stato di salute frustra alle volte il matrimonio con una donna «così divina» come Elena («Mi fa soffrire vedere il suo corpo... e non rendergli giustizia»). Ma non per questo mancano gli svaghi, e soprattutto le fantasie («Lei crede in Dio?», chiede maliziosamente a una bella donna in un taxi, che scuote la testa. «Non è meravi¬ glioso? Neanch'io»). Vicino ai settant'anni, non pago di conoscere già sei o sette lingue, prende ancora lezioni di ungherese da un'attraentissima studentessa a cui paga l'università: ma anche questa resta una relazione platonica («Vorrei vederla nuda». «Le assicuro che sono assolutamente bella ma: no»). Onore al merito di tanta ironia su sbandate e fallimenti, visto che certamente lo scrittore non dubitava che i suoi diari sarebbero stati un giorno pubblicati. Buffo è che su questo argomento abbia discusso a New York con Anais Nin, che si lamentava delle mille difficoltà che stava incontrando a pubblicare i propri. Ogni editore pretendeva da lei che si procurasse un nulla osta scritto da tutte le persone non sempre lusinghieramente citate nei diari. Anche da Wilson, a cui assicura con lo sguardo languido che non avrà nessuna ragione di lamentarsi. Poi si scopre che lo ha descritto come un uomo aggressivo, arrogante e autoritario, che la insidia (fisicamente), e la spaventa (intellettualmente). Ma perché scomporsi, deve pensare il vecchio con la faccia da mastino. Prende la penna in mano e corregge qualche inesattezza, e intanto osserva la sua interlocutrice: quanto è graziosa, esotica, latina... Livia Manera Le confessioni di Fitzgerald: «Se Zelda morisse non me ne importerebbe, ma non sopporterei che sposasse un altro» Sotto: John Kennedy Da sinistra: Hemingway, e Edmund Wilson A sinistra, nella foto grande: Zelda Fitzgerald Sopra: Malraux, entrato nel mirino di Wilson per le sue frequentazioni con la Casa Bianca