E sul prato verde in coro tutti rispondono «Amen» di Furio Colombo

E sul prato verde in coro tutti rispondono «Amen» E sul prato verde in coro tutti rispondono «Amen» LA STORIA IN DIRETTA CLINTON H guida Arafat per un braccio, | 10 sposta appena il gruppo compare, dal fondo di una porta scura, fra due marines irrigiditi di guardia, in pieno sole. Arafat sembra per un momento abbagliato e col suo passo deliberatamente militare - il torso un po' indietro, le gambe rigide avanti - sposta di qualche grado la linea retta del suo venire avanti, seguendo la pressione sul gomito del Presidente americano. Rabin, il primo ministro israeliano generale smobilitato con la giacca spiegazzata dal viaggio, la faccia stanca, gli occhi un po' gonfi, cammina in fretta dall'altro lato. Hanno lavorato fino all'ultimo, ci dice la voce di un cronista, più o meno lo stesso commento sull'una o sull'altra rete, più o meno le stesse inquadrature. Alcuni cambiamenti, nel prologo del trattato - sono stati fatti questa mattina, alla Casa Bianca, sul tavolo del presidente Clinton. Dalla porta scura escono alla luce Peres, il ministro degli Esteri israeliano, e Akmud Abas, terzo nella gerarchia dello Olp, ma 11 solo - dopo la rivolta di Kaddumi all'accordo - disposto ad apporre la firma. E subito dopo, in un protocollo improvvisato, per un fatto che non ha precedenti, e che è stato risolto col buon senso, vengono alla luce, dal rettangolo nero, il ministro degli Esteri russo Andrei Kozyrev e quello americano Warren Chistopher. Il gruppo esce sul prato della Casa Bianca e ha di fronte una folla che da lontano appare festosa. Potrebbe essere qui per una inaugurazione, un premio, una partita di tennis. Quando la telecamera scorre sui volti, vediamo espressioni intense, preoccupate o distanti, a seconda che compaia il volto di George Bush, quello dell'ex segretario di Stato Baker, dell'ex presidente Carter, o di Henry Kissinger, nascosto in seconda fila, e disinteressato agli applausi. Ma le reti tornano a offrirci il «grand'angolo» l'inquadratura d'insieme della folla stipata sul prato. E quell'immagine appare festosa, come in attesa di evento facile, scontato. Invece non lo è, nonostante il volto aperto di Clinton, e lo capiremo fra un istante, quando ci saranno i di- scorsi. Per adesso notiamo questo: il volto di Rabin, che sta per lanciare un appello sorprendente, inaspettato, alla convivenza fianco a fianco di israeliani e palestinesi, appare grave, pensoso. Quello di Arafat, che sta per pronunciare un freddo elenco burocratico dei problemi da risolvere piuttosto che una celebrazione della firma di oggi è invece ilare, si guarda intorno con evidente soddisfazione. Bisogna capirlo, incalzano i commentatori. E' tutta una vita che sogna la grande accoglienza a Washington e quel giorno è venuto. Questo, più di ogni altra cosa, più delle righe, dei paragrafi, delle virgole del difficile accordo, è per Arafat il grande risultato raggiunto, questo lui, soprattutto celebra. Anche se gli costa il distacco da amici cari cari come Kaddumi, che gli costa rischio, ostilità, inimicizia di molti che erano stati il suo popolo. Per Bill Clinton è facile. Il suo volto, il suo sorriso ottimista sono adatti alla festa. Le sue parole incoraggiano, fanno anzi pensare all'esito facile, naturale, di qualcosa che non poteva non ac- cadere. I cronisti ci fanno osservare che non ci sono inni nazionali e non ci sono bandiere, per non creare irrisolvibili problemi di protocollo. Ma è proprio la mancanza di un protocollo politico che ha reso facile il gioco festoso di Clinton (tocca, aiuta, spinge, raggiunge le mani degli uni e degli altri) e che permette l'irrompere sui teleschermi di un «pro¬ tocollo televisivo». Sono le telecamere a darci i volti, le espressioni, le reazioni, i gesti, non solo «secondo sequenza». Ma anche con stacchi improvvisi che servono da illustrazione e commento. Quando tutto è finito una cosa sola ci resta in mente. E' il capolavoro del «protocollo della televisione». E' la stretta di mano. Più o meno a metà della ceri¬ monia Clinton ha quasi afferrato il braccio di Rabin e quello di Arafat. Se non lo ha fatto ha accennato al gesto di farlo. Le telecamere sono corse in quel punto e hanno creato ciò che dà senso, ragione, equilibrio a tutto l'evento. Rabin e Arafat, il giorno 13 settembre sul prato della Casa Bianca, in America, come in un film di fanta politica, si stringono vigorosamente la mano. Tutti sono balzati in piedi come in un evento sportivo. Una folla di dignitari, ex presidenti, ministri, parlamentari, ambasciatori (una folla dove si vedevano abiti arabi da cerimonia, uomini col kefiah e rabbini e l'effetto di schiacciamento delle telecamere ce li mostrava vicinissimi, uno accanto all'altro) non solo ha battuto le mani, ma faceva sentire la sua approvazione con un tuono di voce. Abbiamo subito saputo che quel momento sarebbe stato il centro dell'evento, il centro della storia, l'evento del giorno. E l'immagine per il futuro. Ma in tempo reale (e dunque in una «diretta») il percorso è più lento e difficile di ciò che si esprime istantaneamente in un simbolo. Ha parlato Rabin. I lettori, che conoscono la mia vicinanza con Israele, penseranno ora a una in terpretazione «di parte». E' possibile, ma andate a rivedere il discorso di Rabin in altre parti di questo giornale. Rabin, l'uomo della guerra, della difesa, della tenace affermazione dei diritti di Israele, si è rivolto sempre e direttamente ai Palestinesi. Ha detto «a nome dei soldati ancora insanguinati, di coloro che tornano dai funerali di coloro che hanno combattuto, basta con lacrime e sangue, basta. Noi vi diciamo: viviamo accanto in dignità e libertà». «E' venuto il tempo della pace. Vorrei celebrarla con una preghiera. Posso chiedere a tutti voi di dire "Amen" con me?». Circa tremila invitati del corpo diplomatico e di quello politico, di uno schieramento e dell'altro, dei kefiah e degli abiti arabi, hanno risposto «amen» insieme. Arafat, che è apparso festoso prima e dopo il discorso, e che è stato guidato da Clinton a stringere la mano di tutta la prima fila degli ospiti (lo ha fatto con le due mani e sembrava trattenersi a stento dal desiderio di accogliere qualcuno in un abbraccio cordiale), ha parlato in arabo. Si è rivolto sempre gli ospiti americani. Forse non si aspettava da Rabin un discorso così appassionato, forse non era pronto. Forse le spaccature della sua parte sono troppo profonde per rischiare il discorso fraterno. La traduzione ci ha dato un discorso cauto, in guardia, un elenco di cose che restano da fare, di problemi non risolti, sia pure con l'apertura e la chiusura su «questo grande giorno». Ma se ce ne andiamo dal video con il senso di suspense e incertezza di una prima puntata (promettente, nel bene che porterà, ma con molte premonizioni di rischio) è in parte a causa delle notizie che ci parlano dei molti pericoli che ancora minacciano questo accordo. E in parte perché la televisione ha espresso nelle immagini o meglio nei dettagli delle immagini, questo senso di sospensione, di incompiuto. Furio Colombo H |

Luoghi citati: America, Israele, Washington