Ebrei Il Lager della salvezza

SOOETf^lJIMA SPPfScOU Cinquantanni fa gli inglesi liberavano il primo campo: era in Calabria, un medico ha scoperto la sua storia dimenticata Il Lager della salvezza 7*1 COSENZA I \ INQUANT'ANNI fa, la I mattina del 14 settembre 1 i 1943, un carro della Otsi} tava . Armata britannica che risaliva la piana cosentina varcò il perimetro di un complesso di baracche e liberò il «campo di concentramento» di Ferramonti. Dentro c'erano duemila persone: uomini, donne, bambini. Molto magri, in genere, ma intatti. In maggioranza erano ebrei di varie nazionalità europee. Dopo il primo stupore ci furono abbracci e distribuzione di corned beef. Venne chiamato il tenente Chetwyn, addetto alla documentazione visiva della campagna italiana, e così venne scattata la foto che vedete. Destinata a rimanere sepolta negli archivi militari di Londra, ma storica perché Ferramonti fu il primo campo di concentramento per ebrei liberato nel corso della seconda guerra mondiale in tutta Europa. Ci sarebbero voluti altri dieci mesi perché ne venisse scoperto un altro, ben più tragico: a Majdanek, periferia di Lublino, in Polonia, il 21 luglio 1944 l'Armata Rossa penetrò in un complesso di edifici precipitosamente abbandonati, dove rimanevano però visibili una camera a gas e un forno crematorio, la prima prova della destinazione finale del «viaggio degli ebrei». A Ferramonti invece si salvarono tutti, per una fortunata coincidenza di date, nella confusione dei giorni dell'armistizio. Poche settimane, forse pochi giorni e, se l'avanzata degli Alleati fosse stata meno rapida, gli internati sarebbero stati trascinati nel Nord Italia e di qui - come successe a ottomila internati - avviati in treno verso i campi di sterminio del Reich. Storia rimossa, quella di Ferramonti, rimasta sconosciuta per decenni e scoperta solo grazie alle ricerche di un medico pediatra cosentino, Carlo Spartaco Capogreco, che ne scrisse sei anni fa e il cui libro - «Ferramonti» - torna in questi giorni in libreria ristampato dall'editore Giuntina. Il luogo: la piana paludosa e malarica che da Cosenza giunge fino a Sibari seguendo il corso del fiume Crati. Qui, frettolosamente, nel giugno del 1940 venne decisa la costruzione di un campo di concentramento per «sudditi nemici», decine di baracche appaltate per sette milioni alla ditta Eugenio Panini di Roma. Posto sotto la Direzione Generale Demografia e Razza del ministero dell'Interno, il campo venne immediatamente popolato da centinaia di ebrei arrestati soprattutto nel Nord Italia: profughi provenienti dal l'Austria, dalla Germania, dal l'Ungheria, dalla Cecoslovac chia che avevano scelto l'Italia nonostante le leggi razziali del 1938, come male minore in un'Europa sempre più hitleria- na. Erano professori, professionisti, imprenditori, impiegati che giunsero insieme alle loro famiglie. Col tempo a loro si sarebbe aggiunta una schiera di personaggi inconsueti, a formare il più grande campo di concentramento costruito dal fascismo. Di cui però allora pochissimi sapevano e di cui subito dopo si perse la memoria. Racconta Capogreco: «Io ne sentii parlare la prima volta al liceo. Volli andare a vedere, ma in quella zona era ormai passata l'autostrada e non c'era più niente, se non gli uffici in muratura dell'amministrazione. Le baracche erano state smantellate per fare legname. Gli anziani dei paesi ricordavano, con mille particolari; ma per l'ufficialità, Ferramonti non era mai esistito. Non un libro, non una targa, nulla. Ma quando andai per le mie ricerche in Israele, scoprii tanti ex internati che si chiamavano ancora "ferramontini" e che anche dei ragazzini conoscevano il nome Ferramonti. Sapevano che era stato un "campo buono", una specie di "anti Auschwitz". Qualcuno sapeva anche che era in Calabria». Man mano che vennero messi insieme i pezzi, la storia di Ferramonti apparve come quella di una piccola Europa, silenziosa- mente concentrata su una piana desolata, da dove la storia era raramente passata. Di un microcosmo che aveva abitato in un'anticamera, con due porte davanti: una che dava sullo sterminio, l'altra che si apriva sulla liberazione. Non fu un campo di punizione, Ferramonti. Era circondato da filo spinato e guardato dalla milizia armata, ma gli internati ricevevano un sussidio (sette lire al giorno), erano nutriti, usufruivano di docce, potevano ottenere permessi di uscita - per una visita medica a Cosenza, ma anche per un bagno al fiume. Era permessa, anche se censurata, la corrispondenza. La direzione del campo fu sempre «umana» e «accomodante» (non era raro che il direttore prendesse dei ragazzini e li portasse a fare un giro in macchina) e permise un notevole autogoverno. Un parlamento, eletto in ogni camerata, che eleggeva poi un «capo dei capi». Un giudice pacificatore delle controversie. Una biblioteca. Un giornale. Scuole, con regolari pagelle. Concorsi letterari, concerti, tornei di football. Funzioni religiose. Una sinagoga. Venne discusso, e deciso di tollerare, un limi¬ tato e discreto esercizio della prostituzione. Da Ferramonti passarono alcuni nomi prestigiosi della cultura ebraica europea: il chirurgo ungherese Ladislao Schwarz; l'editore viennese Gustav Brenner, il pittore Michel Fingesten, il direttore d'orchestra Lav Mirski, il maestro di scacchi Jean Hermann, il giudice Berent della corte d'appello di Danzica. E poi, le persone più inattese. Per esempio i cinquecento naufraghi della nave «Pentcho». Realtà romanzesca, la loro vicenda. Erano tutti membri di un'organizzazione sionista di Bratislava, che aveva acquistato una vecchia carretta a ruota per la navigazione fluviale del Danubio. Obiettivo, la Palestina. Vagarono per il fiume, comandati da un vecchio capitano della Marina zarista, che cedette per intossicazione da morfina. Vennero mitragliati, andarono alla deriva, arrivarono a Istanbul attraverso il Mar Nero, poi al Pireo, poi a Rodi dove fecero naufragio. Qui vennero arrestati e infine spediti a Ferramonti. Quando vi arrivarono il campo sembrò loro l'anticipazione di un kibbutz. «Sembrava in parte una borgata ebraica dell'Europa orientale - ha raccontato a Capogreco uno degli internati - e in parte una colonia di pionieri in Palestina. Si parlava yiddish e alcune parole le avevano imparate anche gli agenti della milizia». Un mondo separato, in attesa. Gli internati ricevettero tre visite di Israele Kalk, un ebreo russo diventato ingegnere a Milano che aveva fondato un'organizzazione di sostegno per gli internati. Ricevettero la visita del nunzio apostolico, presso il governo italiano, monsignor Borgoncini-Duca, che tenne informato il Vaticano sulla situazione del campo. Nell'ottobre del 1942 videro arrivare, nella forma di tre polacchi stremati, lo spettro di quanto qualcuno sospettava, ma non voleva credere. Venivano da Siedlce, a Est di Varsavia, e raccontarono di essere stati trasportati a Treblinka, di avere subito quindici ore al giorno di lavoro forzato e aver visto impiccagioni per la minima infrazione. Loro erano riusciti a fuggire, saltando su un treno che portava la bandiera italiana. Così riuscirono ad arrivare fino a Vipiteno. Di lì i carabinieri li spedirono in Calabria. Arrivarono dei cinesi che vendevano «clavatte» al Nord e si unirono a un gruppo di marinai cinesi per formare, nel campo, una cooperativa di lavandai. Arrivò Vignolini, terzino del Genoa, internato perché comunista. Divenne un punto forte della squadra di calcio Ferramonti, insieme a Glaser, portiere della Nazionale jugoslava. Arrivò il generale còrso Marchetti. E arrivò anche il 1943, che gli internati seguirono ascoltando Radio Londra: lo sbarco in Sicilia, la caduta del fascismo, i movimenti di ritirata lungo il fiume Crati della potente divisione corazzata Hermann Goering. Dal campo vedevano luci e sentivano rumori. Molti recitarono la poesia di August von Platen, quella che noi conosciamo nella traduzione di Carducci: «Cupi a notte canti suonano/ da Cosenza sul Busento...». Infine arrivò l'Ottava Armata inglese accolta da quelli della Pentcho con una sola domanda: quando possiamo ripartire per la Palestina? Queste furono le vicende del più grande campo di concentramento fascista. Capogreco mi dice: «All'Archivio Centrale di Roma ho trovato un documento, datato proprio 25 luglio 1943, firmato dal capogabinetto di Mussolini. Si prospettava il trasferimento degli internati di Ferramonti in provincia di Bolzano». Sarebbe stato attuato? «Non lo so. Per tutta la durata del campo, non ci fu mai antisemitismo da parte delle autorità di Ferramonti. Era la "buona periferia". Ma chi può dire come avrebbero reagito davanti a un ordine?». Di Ferramonti, in realtà, alla provincia di Cosenza restò molto, perché gli internati non andarono via subito. A Cosenza pubblicarono un giornale, Mirski diede un grande concerto, furono parte attiva nel movimento per la rimozione del prefetto fascista. Ladislao Schwarz rimase come medico per decenni e nei paesi lo ricordano ancora. Fingesten dipinse un martirio di San Bartolomeo nella chiesa di Bisignano. Brenner fondò una casa editrice, la prima a occuparsi della storia e dei beni culturali della provincia di Cosenza, e ancora oggi attiva, diretta dal figlio. Partirono un po' alla volta. Duecento, invitati personalmente da Roosevelt, per New York. Quelli del Pentcho per la Palestina. I cinesi, chissà dove. Fantasmi di un'Europa che non c'è più. Idiomi, idealismi, li bri, forti miopie, violini nella piana malarica del fiume Crati, dove il primo vero pane era il chinino. Enrico Deaglio Fra Ì2000 internati intellettuali e artisti prestigiosi. Per loro un sussidio quotidiano, docce e permessi di uscita Avevano una scuola giornali, concerti. E un torneo di calcio Anche un gruppo di cinesi fra i prigionieri del campo di Ferramonti di Tarsia, vicino a Cosenza. Nell'immagine grande la prima foto scattata dopo la liberazione per opera dell'Ottava Armata britannica