«Roma ti rifiuto sei la città dei barbari»

«Cera un mondo colto e cosmopolita: fino al fatale '68» Tra il degrado, fantasmi di eleganze perdute: i ricordi di Zeri nella capitale «ridotta come dopo le guerre gotiche» «Roma, ti rifiuto sei la città dei barbari» EVITO accuratamente di recarmi a Roma. Nato e vissuto per 46 anni nella città, ogni volta che transito per il suo centro vengo assalito da rabbia e disgusto, nell'incontrare ad ogni passo i segni di un pauroso, inammissibile degrado di cose e di persone. Giorni fa, fu la volta della chiesa americana di San Paolo in via Nazionale (la via dove ho abitato sino al 1940), chiesa che non vedevo da molto tempo: capolavoro dell'arte inglese del tardo Ottocento (e unico esempio che ne esista in Italia), il suo esterno è oggi devastato e avvilito nelle fasce di mattoni (cotti appositamente a Siena ma che ora sono stati dipinti di rosso), nella porta (quella originale, stupenda, di legno e ferro battuto ha dovuto dar luogo ad un intruglio in bronzo di stile moderno), nel travertino dello zoccolo (ricoperto da osceni graffiti e da innumerevoli pupazzi in spray). Come se non bastasse, proprio davanti al portale un ampio banco di vendita, gestito da un vu' cumprà, ostenta cianfrusaglie, accanto ad un emarginato che offre cuccioli canini ai passanti. Roma! Basterebbe un volume a descrivere gli sconci odierni, che, credo, non si vedevano sin dai tempi della guerra gotica, cioè dal VI secolo? Nel tornare a casa, facevo il confronto con la città che ho conosciuto, e che ho lasciato nel 1967, proprio quando stava per iniziare il collasso e la degradazione. E, passando in auto per un Lungotevere, ho rivisto di sfuggita un edificio, dove abitava allora un singolare, ricchissimo personaggio, oggi scomparso, dopo aver dato fondo alle sue enormi sostanze. Erede di una grande casata (uno dei suoi antenati, collaboratore stimato di Carlo V, aveva nella collezione di quadri anche il Ritratto Arnolfini, donato poi alla Reggente dei Paesi Bassi, Margherita d'Austria, e oggi nella National Gallery di Londra), proprietario di vastissimi terreni nel Sud (della cui amministrazione si occupava poco o nulla) egli era uno degli happy few di quella élite sociale di Roma che faceva capo a Palazzo Colonna e alla principessa Isabella, regina senza corona della capitale d'Italia. Era la Roma di Mimi Pecci Blunt, di Ely de Talleyrand, di casa Odescalchi, di Clemente Aldobrandini (cito i nomi come mi tornano alla memoria); quella stessa élite di cui oggi sopravvive soltanto la principessa Elvina Pallavicini, salda come roccia nella tempesta di scandali, nomi illustri scaduti al rotocalco, decessi, macchiette e rovine. Era la Roma dove ogni sera, dopo un paio di cocktail parties in questa o quella dimora patrizia, ci si ritrovava a cena tra gli stessi amici, accanto a una rosa di personaggi minori, di ospiti giunti da altre parti d'Italia, o dalla Francia, dall'Inghilterra o dagli Stati Uniti. Mi domando spesso come ce l'abbia potuta fare, quale ener¬ gia mi sostenesse allora nello studiare, nelle ricerche, e nello scrivere: erano gli anni in cui mi stavo formando nella mia professione, e la storia dell'arte l'avevo relegata nelle ore notturne, dopo l'una o le due del mattino, quando mi ritrovavo a casa dopo feste e cene, incontri e discussioni, nuove conoscenze di persone e di quadri, lunghi viaggi in auto al ritomo da questo o quel luogo del Lazio, villa o castello (quando di brutti imprevisti durante le ore notturne in aperta campagna non si pensava neppure). Tornano oggi alla memoria frammenti, episodi, tutti confusi nel tempo, senza un prima né un dopo. Come quella serata in casa Volpi, con Elsa Maxwell e Jean Cocteau ospiti della Contessa Natalie, e con un gruppo di francesi molto in. Ne ricordo lo spettacoloso vestito di Balenciaga che indossava Elvina Pallavici¬ ni, e ricordo la curiosa osservazione di uno dei francesi, che, avendo domandato cosa fosse una terracotta bellissima al centro di una sala, alla risposta della padrona di casa «C'est Messina», esclamò «Mai je ne savais pas qu'on y afait desfouilles!», confondendo il gioiello di Francesco Messina con la città dello Stretto. b Ma ora rivedo colui che abitava vicino al Lungotevere, e le serate trascorse in casa sua. Bruttissimo e piccolo di statura, il suo appartamento era stato decorato da un architetto che Isabella Colonna aveva portato alle luci della ribalta. Piena di oggetti d'arte (alcuni splendidi) non era una sede monumentale, ma di estrema finezza nei dettagli. Appena entrati, ben si comprendeva la parrocchia cui apparteneva il proprietario: e non tanto per un bellissimo torso marmo mana, con un Ercole che esibiva i suoi muscoli e i suoi attributi virili, well hung, ma piuttosto per la quantità di piccoli obelischi e di palle marmoree distribuiti un po' ovunque. Nonostante tutto ciò, il singolare personaggio era legato con una gran dama, con la quale, all'evidenza, egli riusciva a far qualcosa. Il ritratto di questa signora (della quale conservo un ricordo speciale, fatto di rimpianto e di venerazione) campeggiava in un angolo della camera da letto, camera tutta rivestita di specchi, anche nel soffitto. La prima volta che mi recai ad un invito in questa casa, osservai una assai ricca collezione di mortai in bronzo del Rinascimento, notando che tutti erano privi di pestello, finiti (come osservò un altro ospite noto per la sua pungente lingua, l'amico P.M.), finiti dove era prevedibile fossero finiti. Ma le cene presso il ricchissimo, singolare individuo, erano sempre una sorpresa. Una sera (c'era Isabella Colonna, Elvina Pallavicini, il marchese Misciattelli, e un altro commensale che non ricordo) entrando nella sala da pranzo, restammo senza fiato. Si trattava di una piccola sala ovale, dalle pareti bianchissime, immacolate, e il tavolo era ricoperto di una candida tovaglia di lino. Ora, con una profusione quasi incredibile, pareti e tavolo erano ricoperti da una fittissima fioritura di orchidee viola, quelle grandi, del tipo Cattleya. Erano centinaia e centinaia di fiori, fissati ognuno nel suo piccolo tubicino con l'acqua: un'atmosfera di favola irreale ed assurda, che, alla luce delle candele, aveva un che di magico e di fatato. Potrei dire di altre sorprese che ci riserbò il ricchissimo, singolare individuo, prima che finisse nel crollo: i creditori, dopo lunghe attese, gli serbarono l'umiliazione degli elettrodomestici venduti all'asta nel cortile dell'edificio, poi egli venne sfrattato, e infine si mise al lavoro. Lo si vedeva girare per Roma, su una vecchia Rolls-Royce e con un cagnolino bianco in grembo. Gli amici e i conoscenti gli restarono tutti fedeli, ma questo ultimo capitolo necessita di ben altri spazi per poterlo descrivere sino in fondo. Giorni fa, nel passare in auto accanto alla sua casa, mi chiedevo quando questo mondo, questo ancien regime siano finiti. Io l'ho vissuto sino allo scadere degli Anni 60: sino al momento in cui stava per rintoccare il fatale '68, data che coincideva con la mia partenza sempre più frequente verso l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Altre voci, altre stanze. Mi giungevano le notizie del decesso di questo o quel nome che avevo coltivato, ad una ad una le persone della ristretta cerchia sparivano, le loro dimore scadevano verso usi impropri, si faceva strada l'immondo sbocco della tv ad infettare il Paese: non restava che il ricordo, talvolta vivissimo, di quella sorta di douceur de vivre. Federico Zeri «Cera un mondo colto e cosmopolita: fino al fatale '68» «Ogni volta che transito per il centro vengo assalito da rabbia e disgusto»