«lo, cassintegrato dinamitardo» di Paolo Guzzanti

«lo, cassintegrato dinamitardo» «lo, cassintegrato dinamitardo» «La guerra continuerà a colpi di molotov» NELLA FABBRICA DISTRUTTA SCROTONE I', non si può proprio dire che sia stata una sassaiola da ragazzi, una baruffa con i poliziotti punteggiata qua e là da qualche isolato eccesso, benevolmente separabile dal resto. Macché: «la fabbrica», come qui si chiama la desolata città lunare del fosforo deU'Enichem, è ridotta come Hiroshima. Il fosforo è stato usato come il napalm, di fosforo sono state riempite le bottiglie incendiarie e uno degli operai - niente nome mi garantisce che ce n'è uno stock pronto per l'uso. Sabbia dorata fuori, fosforo che giace a pezzi nei bidoni, coperto d'acqua, perché come vede la luce e l'aria diventa subito fiamma e distruzione. Ho accanto a me l'eroe della rivolta, l'operaio che si era inerpicato su, per cento metri, lungo la scaletta della ciminiera più alta, dipinta a cerchi rossi e bianchi. Ti conosco, gli dico quando me lo trovo davanti con la sua maglietta gialla intrisa di sudore, la bella faccia da messicano con i baffoni, gli occhi profondi non del tutto mansueti. «Tu sei Mattace, Michele Mattace, quello che per poco non si buttava». «Sì, sono io. Mattace Michele». E qual è stato il momento più brutto, lassù? «E' stato quando dentro di me una parte diceva: buttati. E l'altra parte diceva resisti». Avevi paura? «Sì, avevo paura, ma più di tutto mi veniva da piangere a pensare a questa fabbrica, e ad Annibale e Attilio, i miei figli, e a Francesca, mia moglie. Poi mi hanno convinto a scendere con l'inganno. Mi hanno detto: hai vinto, Michele, tutto a posto, "u guvernu ha accettato, nènte cass'ntegrazziòne, il lavoro è salvo". Così sono sceso, ed era una bugia». Provo a descrivere le devastazioni, che forse avete visto in televisione. Quello che la televisione non vi può dare è la puzza. E' la stéssa puzza della guerra, polvere, copertone bruciato, gomma, qualcosa di nauseante, di appiccicoso. La giornata è torrida, il mare è degno dei Caraibi, la sabbia arriva fino al cancello della fabbrica, che si presenta come una mostra-museo dell'industrializzazione ottocentesca: capannoni (sfondati e anneriti) che sembrano navate gotiche, odorosi di carne bruciata, di astio consumato, di furia. Dico a Michele Mattace, l'eroe che tutti fermano, cui tutti toccano il braccio per dirgli bravo, Michele, hai fatto bene Michele, dico a Michele: ((Avete fatto i fuochi per strada, e va bene: fa bene alla televisione, che si tira dietro l'attenzione nazionale, passi. Ma queste distruzioni, questa voglia di incendiare, il gusto della devastazione, a che serve? E' televisione anche questa, ma vi dà pessima fama. Sapete come vi chiamano?». E lui: «Incendiaturi». Ecco, diciamo pure incendiaturi, ma in italiano si dice vandali. Michele Mattace, l'eroe con i baffoni da Caffè Paulista, avvampa, cerca le parole e me le dice in dialetto. Traduco. «Vandali noi che abbiamo rovinato le cose, la roba, le suppellettili, i capannoni? Sai che ti dico? Che per rimettere in sesto tutte queste nostre devastazioni bastano quattro spiccioli, rispetto ai miliardi che si sono mangiati. E poi ti dico un'altra cosa: noi abbiamo fatto vandalismo con le cose inanimate, ma loro hanno fatto i vandali con noi esseri umani. Allora dimmi chi ha cominciato e di chi è la colpa». Parole, come si vede, da cultura statalista assistenzialista, in cui si legge l'eterno equivoco dello Stato, del governo, dell'immaginario «(potere» che deve dare la pappa a tutti, sempre e comunque. Ciò detto resta il fatto che Crotone è tutta nella sua fabbrica e che tutti i suoi cittadini dipendono da questi capannoni: la loro chiusura significa la chiusura di qualsiasi alternativa. Ma ecco che arriva, lontano sul crinale della strada che corre su una duna antica come Omero (e questa è Italia grecaomerica, tutti i cognomi sono greci, questi sono achei e saraceni, con facce doriche dagli occhi chiarissimi e i capelli color, cenere), il corteo che si staglia contro un cielo opalescente, rosato, delicato e arso dalla furia di un sole che fa evaporare l'acqua dai corpi. E si svolge una scena corale che non avrei mai saputo immaginare. Io mi trovo dentro la fabbrica occupata, con la cancellata elettrica chiusa. Fuori arrivano migliaia di crotonesi con le bandiere (il sindaco pidiessino Carmine Tallarico mi dice: «Sono diecimila», ma credo che esageri un bel po') che si stipano contro i ferri. Da dentro qualcuno comincia a portare confezioni da sei di bottiglie di acqua minerale di plastica. Le bottiglie volano di mano in mano e alcune, per motivi misteriosi di ressa e di furia, volano ih aria illuminandosi come stelle comete mentre perdono una scia d'acqua. In breve il corteo si schiaccia contro le cancellate e chiede acqua; e da dentro si porta acqua e acqua: che controsenso poetico, gli assediati abbeverano gli assediami. La folla foggia slogan grossolani, come «Bossi, vaffanculo», ma quel che conta è che tutta la città di Crotone sia qui davanti ai cancelli, e difatti lo sciopero, o serrata che sia, è stato compatto, tutto chiuso compresi bar e giornalai, trattorie e benzinai. Chiedo al coordinatore del consiglio di fabbrica (che adesso si chiama orribilmente Rsu, rappresentanza sindacale unitaria) Rocco Gaetani di portarmi a vedere le davastazioni e la nostra visita dura un'ora. Ma la cosa che mi è parsa veramente notevole è che la violenza e la furia devastatrice deU'«incazzatura operaia» (vecchio totem degli Anni Settanta) sia stata molto oculata e selettiva. C'è molta razionalità in questa follia: il fosforo e la furia, la sassaiola e le fiamme si sono abbattuti su tutti i reparti destinati a chiudere, ma hanno impeccabilmente risparmiato il settore destinato a produrre, vale a dire gli «impianti zeoliti». Qui, neanche un fiammifero acceso, né una pallina da ping-pong lanciata contro le pos senti e delicate strutture. Ho parlato con alcuni «incendiaturi», o meglio con alcuni che sembrano sinceramente entusiasti del bombardamento atomico che ha schiacciato capannoni alti quattro metri, messo al rogo tutti gli uffici della dirigenza e in particolare quelli da cui sarebbe stata fatta la selezione fra morti e vivi, fra chi resta e chi viene cassintegrato: tutti dicono, ed è naturale, che la selezione abbia seguito criteri di raccomandazione e potentati, non so dire se sia vero o no. Comunque, negli uffici sembra che siano passati insieme Attila e Satana, ognuno con le sue truppe. Schedari dati alle fiamme, tutti i tavoli e gli armadi fatti a pezzi, nerofumo sulle pareti da cui cade l'intonaco e si vedono i mattoni. Tutti i soffitti sono sfondati. Uno mi dice: «Qua si facevano affari d'oro con la guerra IranIraq, dal porto si caricavano navi misteriose che andavano verso il Medio Oriente». C'è stato, a quanto sembra, un processo concluso con le amnistie. Ma è un dato di fatto che il fosforo che qui si produce sia uno dei componenti fondamentali per tutte le armi da fuoco, o meglio per tutte le munizioni. E uno stabilimento così è unico in Italia. Ce n'è uno in Francia, uno in Germania e pochi altri al mon- do. E, paradosso di qualche interesse filosofico, negli stessi bidoni, nelle stesse camerate grandi come il duomo di Milano, si fabbrica il composto chimico che poi, una volta spedito nelle aziende laziali che si occupano di profumarlo e colorarlo, diventa tutti i detersivi più noti, a mano e per lavatrice, per piatti e per lana delicata. All'origine, il grande bidone della creazione del detersivo è qui, a Crotone. Non c'è da meravigliarsi se questi operai sono piuttosto sospettosi quando sentono dire che tutta la baracca è da buttare e loro per primi. Naturalmente hanno torto, perché tutti gli esperti hanno valutato «la fabbrica» nella sua verità-realtà, ma ciò che sta accadendo a Crotone non è un fatto soltanto industriale, e neppure banalmente occupazionale. Si tratta, e tutti gli operai me lo ripetono fino alla noia, di una terrìbile questione sociale, nel senso che un'intera «polis», dal sindaco al vesco¬ vo, dal lattoniere al farmacista, si sente condannata a morte, né saprebbe da dove cominciare per produrre nuova industria, dal momento che questa polis è ed è sempre stata un'unica mono-industria: come la canna da zucchero a Cuba, qui si fanno gas e fosfori. Trovo sul mio quaderno appunti presi al volo: «I conti non quadrano, non possono darcela a bere così, anche noi sappiamo fare due più due». E, molto, molto preoccupante, il sussurro generale: siamo pronti a tutto, la disperazione è la nostra carica, e a proposito di cariche, abbiamo una riserva di materiale incendiario da mettere a ferro e fuoco la Calabria/Parole, ma anche bottiglie nascoste, come se un migliaio di persone si fossero messe a giocare in maniera infernale ai ragazzi della via Paal, sentendosi però, almeno a parole, tutti Nemeseck, la debole vittima che alla fine soccombe. Paolo Guzzanti Fra copertoni bruciati e puzza di fosforo è intatto solo il reparto produttivo

Persone citate: Carmine Tallarico, Mattace, Mattace Michele, Michele Mattace, Paulista, Rocco Gaetani