Torino sconvolta si prepara a resistere

(JP Cinquant'anni fa l'annuncio di Badoglio e molti giovani decidono la mobilitazione contro i tedeschi Cinquant'anni fa l'annuncio di Badoglio e molti giovani decidono la mobilitazione contro i tedeschi Torino sconvolta si prepara a resistere L'8 settembre del '43 nel racconto di alcuni testimoni E' una bella giornata di sole, calda e ancora quasi estiva, queir 8 settembre di cinquant'anni fa. Torino ha un aspetto spettrale. Nei viali i platani mostrano le ferite dell'inverno dopo i tagli della gente in cerca di legna per scaldarsi. In centro interi isolati sono stati rasi al suolo dai terribili bombardamenti alleati. Il ristorante «Il Cuculo», in via Roma, è stato chiuso dal questore perché vende carne a prezzo maggiorato. Un litro di vino costa lire 40, protesta un lettore sulle pagine de La Stampa, gli stipendi sono intorno alle 13001500 lire al mese. In prima pagina, le notizie dal fronte Sud: gli anglo-americani stanno risalendo la penisola, sono già in Calabria. Si attendono gli eventi, dopo l'assaggio di libertà dei 45 giorni senza Mussolini. Dal 25 luglio i movimenti antifascisti avevano incominciato a tirar fuori la testa, con le prime riunioni e gli incontri pubblici, ma serpeggia un profondo disagio. I tedeschi sono presenti in forze in tutto il Nord. A sera il laconico messaggio lanciato via radio dal maresciallo Badoglio alle ore 19,45, trasmesso al posto della rubrica filatelica: il governo italiano ha chiesto l'armistizio, che è stato accolto. Come per tutti gli eventi destinati ad entrare nei libri di storia, quel giorno è rimasto ben impresso nella memoria dei protagonisti della lotta partigiana in Piemonte, nonostante sia passato ormai mezzo secolo. Gianni Alasia, capogruppo di Rifondazione comunista in Comune, allora aveva 16 anni: «Quell'annuncio fu la prima grande sensazione di tragedia della mia giovinezza». Anche Vittorio Foa, il grande vecchio della sinistra italiana, era a Torino. Ha ricordato quei momenti nella testi monianza affidata ad un convegno: quella sera era sulla funi colare di Superga, dove era sfollato. «Decidemmo di tornare subito a Torino». E Foa aggiunge: «La situazione in cui ci trovavamo richiedeva una mobilitazione profonda, non c'era un'uscita tranquilla, l'unica uscita era drammatica». Un altro intellettuale, ancora protagonista della vita politica e culturale, Alessandro Galante Garrone, vive in prima persona quelle convulse giornate. Era un giovane magistrato di 34 anni, tra i primi dirigenti torinesi del partito d'azione. Dice Galante Garrone: «In quel gruppo eravamo tutti d'accordo con l'appello lanciato da Duccio Galimberti, la guerra doveva continuare, ma contro i fascisti. La sera dell'8 entrammo tutti in fibrillazione, volevamo organizzarci ma non sapevamo come». Molti altri, mentre le città si preparavano a resistere ai tedeschi, sono colti dagli avvenimenti in divisa lontani da Torino. Come il tenente ventottenne del Nizza Cavalleria Edgardo Sogno, di stanza a Luserna con il suo squadrone: «Avevamo il terrore di non poter combattere, perciò mi misi in borghese e rientrai in città per incontrare gli altri liberali a casa di Anton Dante Coda, che vidi l'indomani con Franco Antonicelli, Paolo Greco, Wertmuller». Alcuni antifascisti sono più lontani, come Mario Soldati, a Roma e poi in fuga verso Napoli, o come lo storico Guido Quazza. Il preside di Magistero aveva allora 21 anni, era a Roma per gli esami da sottotenente, insieme con un Beppe Fenoglio non ancora scrittore. Dice il prof. Quazza: «In pochi giorni, per l'insipienza dei nostri comandi, quattro milioni di italiani in armi si sciolgono e circa un milione 600 mila soldati sono poi catturati dai nazisti. In molti prevale la voglia di tornare a casa. In un piccolo gruppo riusciamo a organizzarci, vogliamo presidiare l'aeroporto nella speranza di un arrivo immediato dall'aria nella capitale del generale Pat- ton. Ma dopo qualche giorno siamo costretti a lasciare le divise e a rientrare». Una lunga odissea sui treni stracarichi, che si conclude in Valle Sessera, nel Biellese, con la nascita della banda partigiana di Quazza, destinato a diventare uno degli storici della Resistenza. Soltanto il 9 settembre, era un mercoledì, la città comprende appieno gli avvenimenti. Frenetiche riunioni nei circoli antifascisti, qualche bandiera tricolore nei quartieri periferici, notizie contraddittorie. Il comandante della piazza militare è il generale Enrico Adami Rossi. «Un forcaiolo», secondo il giudizio dei protagonisti di allora. Ma ha in mano le armi, le caserme, si potrebbe usare quella forza per difendere la città dalle colonne tedesche di stanza in Piemonte. Si cerca di trattare. Un alto magistrato antifascista, presidente di sezione in corte d'appello, Domenico Riccardo Peretti Griva, si reca dal generale con una delegazione nel tentativo di convincerlo, ma non c'è nulla da fare: ha deciso di consegnare la città ai nazisti. In piazza Sabotino, Galante Garrone e il comunista Luigi Capriolo (che poi morirà in montagna) salgono in piedi su un carretto e arringano la folla: un magistrato e un operaio fianco a fianco, nel tentativo di salvare la situazione. In piazza Carlina si cimenta Giancarlo Pajetta. Ma i primi Tigre sono già a Brandizzo, sulla Milano-Torino. E alle 17,20 del 10 settembre si piazzano attorno a Porta Nuova. Racconta Gianni Alasia: «Vedo le SS arrivare: erano cupi, scuri in volto, le armi in pugno. Cerchiamo con altri operai socialisti di nascondere a Villa Genero le armi prese in caserma e ci ar- rampichiamo sul monte dei Cappuccini per contare i convogli, ma sono sforzi inutili». Prima di partire verso Brindisi in cerca del Re, anche il conte Edgardo Sogno raccoglie armi nella sua casa di via Donati. Ma gli eventi precipitano. Si cerca di salvare gli sbandati. «La solidarietà - rammenta Alasia - li ha vestiti come si poteva: giacche lunghe per braccia corte, pantaloni corti per gambe lunghe. Il dramma sono le scarpe: dagli scarponi vengono riconosciuti dai tedeschi e fatti prigionieri». Galante Garrone descrive con precisione le «lugubri ore del pomeriggio di quel 10 settembre», mentre le colonne con la svastica stavano per entrare. Gli antifascisti sanno che per ora la partita con Adami Rossi è persa, ma ci sono ancora intellettuali, operai, studenti prigionieri per ragioni politiche. «Mi reco dal questore in corso Vinzaglio con Carlo Casalegno, anche lui giovane azionista, con l'ordine di scarcerazione ottenuto non so come da un altro magistrato. Non sa resistere, nonostante sullo scalone fosse palesemente in attesa dei tedeschi. Ci precipitiamo alle carceri con il suo ordine e riusciamo a far uscire una ventina di giovani, che sfuggono così ai campi di concentramento». L'undici settembre c'è ancora qualche scontro in corso Unione Sovietica (allora Stupinigi) con il Nizza Cavalleria bloccato dalle SS, poi cala la cappa. Si solleverà soltanto con lo sciopero insurrezionale del 18 aprile '45. Adami Rossi, il 12, emette il suo bando: coprifuoco, divieto di riunione, divieto di spettacoli pubblici, obbligo di consegnare le armi. Gigi Padovani Sogno: «Avevamo il terrore di non poter combattere, nascosi le armi in cantina» Galante Garrone: «Salvammo dai tedeschi venti antifascisti» Quazza con Fenoglio a Roma «Fummo lasciati senza ordini» (JP Le-prime- ■ pagine dei giornali cittadini e (sopra) la lapide del Call'albergo Canelli Un'immagine di Edgardo Sogno durante la guerra l'8 settembre era nel Nizza Cavalleria Il prof. Guido Quazza (da sinistra) era a Roma per gli esami da ufficiale Gianni Alasia nascose le prime armi in collina a Villa Genero Le-prime- ■ pagine dei giornali cittadini e (sopra) la lapide del Cln all'albergo Canelli