ABISSI DI HERBERT

ABISSI DI HERBERT ABISSI DI HERBERT «Rapporto dalla città assediata»: il poeta polacco processa il Potere SULLA carta geografica dell'Impero è un piccolo punto orientale che sfuma verso le pianure dello zar: Lemberg capitale della Galizia austroungarica. Una città destinata a mutar pelle. Tramontati i baffi di Francesco Giuseppe, Lemberg diventa Leopoli: è ormai polacca e pare non stupirsene. Forse ha capito, per dirla con il premio Nobel Milosz, «che è difficile difendersi dalla storia». Anzi impossibile, di fronte al Panzer di Hitler. Così conosce la follia nazista e più tardi il terrore stalinista. Ora si chiama Lvov, archeologica stratificazione della storia moderna, ma anche limpida immagine della coscienza di un grande poeta polacco che colà è nato nel 1924, Zbigniew Herbert: «E' la patria delle mele, delle colline, dei fiumi pigri, del vino acre e dell'amore». C'è giovinezza in queste parole, non l'aspro destino di un uomo che ha smarrito profumi e umori di casa sul cammino della vita. Nessuno meglio di lui ha imparato che il cielo parla con lingua straniera. Lo sa dai tempi della clandestinità quando combatteva i nazisti e, più tardi, ascoltava in silenzio il ticchettio greve d'un tempo di tiranni. S'aggirava per Varsavia e studiava arte ed economia a Cracovia, consapevole della propria precaria identità storica. «Nel corso della mia vita (...) - ha ricordato in un'intervista - senza che io mi spostassi, ho cambiato cittadinanza quattro volte». Eppure lo sfondo resta la Polonia e il bisogno di contemplare certezze, grumi intatti d'infanzia: una manciata di volti, sensazioni fissati dalle crepe dell'esistenza, sull'orlo dell'abisso. C'è il paese su cui «un grande ragno vi ha disteso sopra la sua rete», la cenere friabile del proprio nido, il ritratto di un padre intellettuale che gli leggeva IL primo volume di Bernard Malamud dato alle stampe dopo la morte del narratore ebreo americano (1986) contiene sedici racconti di cui dieci già usciti su varie riviste fra il '43 e l'85 e sei del tutto inediti, ritrovati fra le sue carte; contiene anche, intitolati Jl popolo, sedici capitoli di un romanzo in corso di composizione al momento dell'infarto, più la traccia degli ultimi cinque previsti. Niente di tutto ciò può nuocere alla reputazione dello scrittore, e anzi il libro contiene molte pagine ammirevoli; ma bisogna aggiungere che i due blocchi rispettivamente di racconti e di romanzo appaiono in stati di finitura piuttosto diversi. I racconti, editi e no, sono tutti formalmente impeccabili, e anzi esemplari della concisione con cui Malamud, degno collega di Singer e di altri affabulatori di tradizione hassidica approdati nel Nuovo Mondo, sapeva raccontare una storia. Composti nell'arco di quarantanni, riflettono naturalmente momenti di esperienza diversi - i primi si occupano di giovani, gli ultimi, di persone anziane - e in un paio di casi possono perfino sorprendere, penso ai due più recenti, che sono minibiografie per piccoli episodi molto famosi rispettivamente di Virginia Woolf e di Alma Mahler, dunque non tanto racconti in piena regola quanto giochini letterari di quelli che piacciono a Umberto Eco. Fra i migliori degli altri c'è l'autobiografico «Armistizio», sull'angoscia di un droghiere ebreo e del figlio, a Brooklyn, davanti agli echi lontani delle atrocità naziste (questo è addirittura del 1940, ossia di qualche anno prima dei primi lavori accettati dai giornali); ci sono un paio di descrizioni di delitti nell'ambito della famiglia, fra cui la confessione di un figlio che crede di avere ucciso il padre; c'è il ritratto di un poco prolifico romanziere, insegnante di com- viste e in due smilzi ma lodevoli volumetti di Scheiwiller degli Anni 80. Viene spontaneo pensare a queste liriche come ad una grande metafora sui vizi del Potere: ingordigia, gesti folli, cieca violenza. Tutt'attorno vocaboli ricorrenti come tristi tiritere della memoria: la notte, il deserto, la sabbia. «Vivevamo in tempi che erano davvero un racconto d'idiota/Pieno di frastuono e crimine», leggiamo. E verrebbe voglia di ripercorrere le tappe di tanta ignominia attraverso la sotterranea disperazione di Herbert. Ma Brodskij, che conduce per mano il lettore italiano verso sponde liriche un tantino fuori mano, sconsiglia di soffermarsi troppo sulla sua biografia. Come dire: attenzione, vita e poesia vanno per strade diverse. E' vero fino ad un certo punto, ma qui è giusto ammetterlo, perché rientra in un percorso di poetica suggerito dall'autore: oggetto dell'arte non è una piccola anima infranta, altrimenti - rammentano ottimi versi - «ciò che resterà di noi/sarà come il pianto di amanti/in un sudicio alberghetto/quando albeggia la carta da parati». Il contegno di Herbert è la distanza, il gesto corrosivo dell'ironia, il ludico mimetismo: forme che disdegnano la volgarità del cuore, l'immediatezza epidermica del kitsch. La sua strada s'inerpica sul pensiero, la gnomica riflessione: s'inoltra in Eliot, Rilke, Valéry fra i classici moderni, e certo non è lontana da Auden, Brecht o Michaux. Ma tale elenco poco o nulla dice su chi ha trasfigurato disperazione e impotenza in lucido delirio, chi è disceso nell'antichità romana e nella mitolo- l'Odissea a tre anni, svolazzante fra mqmetudini e utopie. Ma tutto ciò Herbert lo coglie oltre la propria immagine, quasi fuori del suo destino, in una ricerca di luci e ombre esistenziali che escludono autorispecchiamenti. E il tono è subito alto, la prospettiva aperta su storia e mito, la voce non rotta da lamenti ma intessuta di ironica sobrietà, ruvida e leggera. Lo possiamo verificare ora grazie all'editore Adelphi e all'ottimo lavoro di Pietro Marchesani che ha curato una consistente scelta di liriche di Herbert, Rapporto dalla città assediata, con un saggio introduttivo di Iosif Brodskij. E' un doveroso omaggio ad un grande poeta polacco amato e conosciuto in Europa e in America e da noi contrabbandato su ri¬

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