Caro Clinton io lo chiamo protettorato americano di Foto Ansa

Lf*lf Caro Clinton, io lo chiamo protettorato americano KISSINGER U NA delle questioni emergenti della politica estera americana è se gli Usa debbano usare la loro potenza per conto loro o invece agendo di concerto con la comunità internazionale. L'amministrazione Clinton pare propendere per la seconda di queste ipotesi. Il Presidente ha toccato questo tema nel suo discorso di insediamento affermando che l'America userà la forza «quando viene sfidata la coscienza della comunità internazionale». Stabilire quando la coscienza internazionale sia sfidata è un problema di natura multilaterale. Ma se è un'organizzazione multilaterale a determinare gli impegni militari Usa, c'è il rischio del sovraccarico; se a essa si dà il potere di veto, il rischio è l'abdicazione. La Somalia illustra il primo pericolo; la Bosnia il secondo. L'azione multilaterale in Somalia è stata avviata da Boutros Ghali, quando affermò che lo sterminio per fame laggiù era più grave di quel che succedeva in Bosnia. Le sue preoccupazioni hanno dato luogo all'intervento internazionale perché lo sforzo sembrava essenzialmente umanitario e perché gli Stati Uniti erano pronti a sopportarne il fardello militare iniziale. Lo sbarco degli americani è stato salutato dai più come un uso appropriato e disinteressato della potenza americana. Madeleine Albright, ambasciatrice Usa all'Onu, ha descritto lo scopo dell'azione americana in Somalia come «contributo alla costruzione di uno Stato». Il segretario alla Difesa Les Aspin ha parlato più modestamente di sicurezza a Mogadiscio e creazione di una forza di polizia somala. Nessuno di questi pur encomiabili obiettivi, che fra l'altro non hanno una data di scadenza prevedibile, giustifica il rischio di vite americane in un Paese nel quale non sono in gioco altri interessi nazionali statunitensi. Se si pensasse diversamente, ci si troverrebbe a spedire forze armate americane qua e là in tutto il mondo. Inoltre, quello che comincia come un intervento «umanitario» quasi inevitabilmente diventa politico. Siamo entrati in Somalia per distribuire cibo agli affamati. L'obiettivo, necessariamente correlato, di stabilire un clima di sicurezza, ci ha portato a combattere contro il generale Mohammed Aidid, uno dei signori della guerra, innalzando l'impegno americano fino al livello della contesa fra somali per il potere politico. Per quanto sia poco educato dirlo, gli obiettivi dichiarati dalla Albright e da Aspin fanno pensare più alle guerre del XIX secolo per stabilire protettorati che agli scopi umanitari iniziali del coinvolgimento americano in Somalia. Se in Somalia il multilateralismo ha condizionato una missione militare tuttora alla ricerca di chiari obiettivi politici, la Bosnia ha rappresentato una catastrofe umana nella quale il multilateralismo si è mostrato nel migliore dei casi irrilevante, e nel peggiore una fonte di ostacoli. Nessun foro internazionale - Comunità europea, Nato, Nazioni Unite - è riuscito ad accordarsi sul1'obiettivo politico o sulle azii i militari da intraprendere. Parte della difficoltà risiede nel definire che cosa si suppone che la forza multilaterale debba prefiggersi. Se la Bosnia potesse essere considerata come una nazione, lo scopo dell'azione militare sarebbe quello di restaurare l'unità del Paese. Ma la Bosnia una nazione non lo è mai stata, né possiede il fondamento etnico di una nazionalità. Uno Stato bosniaco potrebbe essere creato solo obbligando con la forza i serbi e i croati, che già hanno combattuto una guerra fra loro per non dover più vivere insieme in Jugoslavia, a vivere insieme nella più piccola Bosnia con i musulmani, che odiano ancor più di quanto si odino gli uni con gli altri. Un sostegno militare al piano Vance-Owen avrebbe infranto il principio di autodeterminazione e condotto all'intervento americano in una guerra civile e poi, se qualche parvenza di pace fosse mai stata raggiunta, a una presenza militare senza fine per mantenere quella pace. L'amministrazione Clinton si è saggiamente ritratta da questa prospettiva. Nei mesi successivi l'amministrazione Clinton è rimasta indecisa, incapace di tracciare un piano d'azione che contemperasse l'orrore per le atrocità serbe con il desiderio di non farsi coinvolgere in una guerra balcanica prolungata. Io non so dire se un'efficace strategia militare avrebbe potuto adattarsi a obiettivi limitati come usare la forza per bloccare gli scontri etnici, tenere aperte strade per rifornire le città assediate, imporre un cessate-il-fuoco, né se azioni di questo tipo avrebbero ricevuto il necessario supporto internazionale. Ma urge sottolineare che senza una chiara e decisa leadership americana, in Bosnia il multilateralismo si riduce a un alibi per l'inazione. Anche quando si è creato un certo consenso attorno a una possibile azione militare, si è subito impantanato nella palude della confusione multilaterale. Qualche settimana fa, alla Nato ci si è accordati sugli attacchi aerei, ma immediatamente ci si è bloccati sulla definizione del- l'obiettivo. Si trattava di proteggere Sarajevo? Di assicurare i rifornimenti umanitari? E, se era così, contro chi? I croati e i serbi? 0 solo i serbi? Ognuno di questi obiettivi è stato citato una volta o l'altra, ma una decisione chiara non è mai emersa. E se l'obiettivo non era chiaro nemmeno alla stessa Nato, come si sarebbe potuto far capire alle fazioni combattenti che cosa esattamente ci si aspettava che smettessero di fare? Le finalità dichiarate degli attacchi aerei sono incredibilmente confuse. L'obiettivo è stato variamente definito come «mostrare fermezza» e «scoraggiare l'escalation degli scontri». Tuttavia l'esperienza del periodo post-bellico ci insegna, in modo purtroppo inequivocabile, che tali atti simbolici sono pericolosi; l'unica maniera efficace di mostrare fermezza è quella di infliggere un danno che l'avversario non è disposto a subire. Ad ogni modo si è sempre detto che il piano della Nato-era subordinato all'approvazione finale del segretario generale dell'Orni, un funzionario civile senza alcuna esperienza militare. Un multilateralismo di questo genere non è politica ma una maniera di evitare ogni genere di politica. Così stando le cose, non sarebbe saggio impegnare 20 mila soldati americani nella forza di pace in Bosnia, come si è proposto. Da tutto ciò traggo le seguenti conclusioni: 1) Niente può sopperire alla mancanza di una chiara e decisa politica americana. Se poi essa vada applicata unilateralmente o multilateralmente, ciò dipende da quanto vitale è la questione in oggetto per il nostro interesse nazionale. 2) La forza andrebbe usata solo se è in gioco un interesse americano chiaramente definibile. Quest'ultimo concetto può includere anche preoccupazioni di ordine morale. Ma se si tratta di questo, esse devono essere fortemente sostenute dall'opinione pubblica, e devono essere chiare. 3) Forze adeguate vanno impegnate per raggiungere l'obiettivo rapidamente e col minimo dei costi. 4) Il sostegno multilaterale all'eventuale uso della forza da parte americana è, naturalmente, desiderabile. Ma gli Stati Uniti non devono né concedere alle istituzioni internazionali un diritto di veto sulla difesa dei loro interessi, né permettere al multilateralismo di invocare l'uso della forza americana in situazioni che non coinvolgono alcun significativo interesse nazionale Usa. Henry Kissinger ' Copyright «Los Angeles Times Syndicate» e per l'Italia «La Stampa» «Così Restore Hope è diventata una missione impossibile» Lf*lf In alto il generale Bruno Loi che da ieri non comanda più le truppe italiane in Somalia Qui accanto due marines americani con un bambino a Mogadiscio [FOTO ANSA] Sopra: il generale Carmine Fiore ha avvicendato ieri Bruno Loi alla guida dell'Operazione Ibis [FOTO ANSA]