Quell'omino in pigiama che piange sul letto

omino in pigiama omino in pigiama che piange sul lotto L'INCONTRO IN PRIGIONE LA verità è che io sono un buono. E per essere buono, a volte sono ingenuo. Perché quando Gardini...». Quinta cella, vicina all'infermeria, settore isolamento del carcere di Verziano,. periferia di Brescia. La porta sii apre sul detenuto Diego Curtò.. Non c'è il potente presidente vicario del tribunale di Milano, in questa cella, non c'è neppure* l'uomo di mondo che scrive libri, e s'intrattiene nei salotti letterari. Il Diego Curtò di oggi, il detenuto Curtò è un omino piccolo, rannicchiato sul letto, in pigiama, trasandato e sofferente. Lo incontro al termine di una. lunga e istruttiva visita a queste piccolo carcere diverso, sessanta, detenuti più uno, sessantatrè' agenti di polizia penitenziaria, luce, spazi e clima disteso. Il dottor Curtò non nasconde le emozioni, mi fa accomodare su una sedia, mi guarda, lentamente gli occhi si riempiono di lacrime, le lacrime poi si fanno pianto disperato, appena nascosto da un fazzoletto bianco presto portato a nascondere l'intera faccia. «E' una cosa tremenda, è una cosa tremenda, che cosa mi hanno fatto...». Cala un attimo di silenzio, il direttore dottor Cantone, butta lì «se questa visita deve essere afflittiva...», e io cerco di distogliere il magistrato detenuto dal suo pensiero fisso - le disonorevoli e pesantissime accuse che lo hanno portato in questa cella -, così come si fa con i bambini, parlando d'altro. Il vitto, il libro che è rimasto aperto sul letto, «L'uomo di Nazareth», di Anthony Burgess. Ma il pensiero fisso prevale. Anche quando la faccia e i gesti si ricompongono. «Noi non voglia mo una Repubblica dei giudici dice con forza il giudice Curtò - e tanto meno vogliamo una Repub blica dei Pubblici Ministeri. Perché quello sarebbe uno Stato di polizia. Questo lo dico da magistrato e lo dicevo anche prima Perché io sono sempre stato dalla parte di chi subisce violenza, e contro i sopraffattori. Ah, se po tessero parlare tutti quelli che ho agevolato, nel corso della mia carriera, tutti mi assolverebbero, tutti. Perché sono un giudice equo, ho sempre cercato la via della conciliazione, non quella della rottura». Si accalora, e anche sorride, «Ha visto? mi dice, lei mi ha fatto passare dal pianto al riso». Nell'armadietto della cella ha cinque panini e un pezzo di formaggio; «anche troppo», sussurra. Così, quando arriva il carrello con la cena, orario ospedaliero, sono le 5 e mezza del pomeriggio, respinge il cibo con la mano. Il direttore, il comandante e gli stessi agenti fanno la parte della chioccia: «Ma su, mangi qualcosa». Lui fa no, caparbio nel pigiama stazzonato. Ha un no ce io lino non da poco in gola, quell'accusa di corruzione che secondo lui è una grande ingiustizia, perché arriva dritta dritta da quella che i suoi accusatori chiamano la «prassi Curtò». Cioè quel suo modo di procedere che lo portò a decidere il fermo delie azioni Enimont mentre Raul Gardini tentava il suo colpo con quell'assemblea straordinaria che avrebbe dovuto cambiare il corso della storia nella chimica italiana. E perché quel metodo Curtò dice di averlo ricevuto in eredità dal suo predecessore Clemente Papi. L'ex presidente vicario del tribunale di Milano fa correre la memoria. A quel lontano e vicino anno 1990 in cui si trovò «maledettamente per caso» a reggere un ufficio nel momento in cui i colleghi Papi e Micelisoppo, che di quell'ufficio erano i dirigenti, se ne stavano andando: il primo morente, l'altro in pensione. «Mi sono trovato da solo, con una dattilografa, a sbrigare di tutto, firmavo tutto quello che mi sottoponevano. In una situazione nella quale per forza sei portato al disbrigo rapido per far correre il lavoro. Pensi che sono tre anni che mi riduco le ferie, torno il pri- mo settembre invece che il quindici, ventitré giorni contati, comprese le domeniche». «Io in quell'ufficio ero solo un rincalzo. La prassi del "fermo provvisorio" delle azioni esisteva già, l'aveva introdotto Clemente Papi, un po' forzando la legge, quella che prevede i provvedimenti cautelativi pretorili. C'era addirittura un modulo prestampato, bastava scrivere il nome e le parti. E gli avvocati ci facevano i complimenti, perché quel sistema aveva il vantaggio di non pregiudicare nulla, perché ci consentiva di ascoltare le parti, di aprire un contraddittorio, di trovare una soluzione. Ma io non ho inventato nulla. E quando Gardini... insomma io pensavo di fare la parte dello Stato». Scuote la testa, parla quasi fra sé: «E pensare che io sono sempre stato un liberista. Ma non si potevano consentire quelle cose lì. Non potevo consentirle proprio io, io che sono sempre stato difensore di quelli che subiscono torti, dalla parte delle vittime. E questa è la parte più difficile. Se lei legge i miei libri, vede che chi ha subito un torto mi ha sempre avuto al suo fianco». Si piega quasi in due, il dottor Curtò, alto magistrato sospettato dall'accusa più infamante per un giudice, la corruzione, si piega e pare solo un piccolo anziano signore sofferente. Ha un'artrosi diffusa, un dolore al menisco, una colite spastica, ha avuto persino un'emorragia provocata dai farmaci. Il medico lo tiene sotto controllo ma - dice la cosa più preoccupante è la situazione psicologica. Perché, pur avendo il (privilegio» di alloggiare in un carcere che dovrebbe essere modello per la tragica situazione italiana, il dottor Curtò l'ha presa proprio male. «Ma perché si fa questo uso smisurato del carcere, ma che cosa è questo nostro processo, altro che modello anglosassone. Ma perché non si depenalizza, e poi, che colpiscano sul patrimonio, potevano pignorarmi tutto, potevano bloccarmi la pensione, ma non così, non questo...». Si guarda intorno smarrito, tenta una battuta «anche se questo è un hotel a cinque stelle, anche se loro, gli agenti, dicono che le stelle sono addirittura sei...». Non si può parlare della questione più spinosa, quei soldi che gli avrebbe dato l'avvocato Palladino. Quei soldi che hanno fatto strani giri e su cui il dottor Curtò difficilmente potrà dare una spiegazione ai magistrati che lo interrogheranno tra una manciata di ore. Come ha passato la giornata il detenuto Curtò? «Oggi sono andato un pochino all'aria, ma faccio fatica a camminare, non mi reggo in piedi. Dormo soltanto con due pastigline, e pensare che non ne avevo mai prese in vita mia. E per fortuna che non vedo giornali né televisione». Sì, è una fortuna per il detenuto Curtò. Gli altri, i suoi colleghi, la tv l'hanno persino a colori. E girano liberi per i corridoi tutto il giorno, giocano a carte, si ritrovano nelle sale comuni per mangiare o chiacchierare, dispongono di una palestra ben attrezzata, di una biblioteca con mille libri, di una sala di culto per la messa, di giardini e campo sportivo. Fanno anche campionati di calcio. Possono fare la doccia tutti i giorni, i colloqui con i famigliari vengono svolti in una sala con tavolini che non ricordano i lugubri banconi degli altri istituti da pena. E' un privilegio per il giudice Curtò essere finito in questo hotel a cinque (o forse sei) stelle? «La pena dice il giudice - la vera più grande pena è la privazione della libertà. E in questo Paese se ne sta facendo veramente abuso». Tiziana Maiolo «Un'esperienza tremenda, che cosa mi hanno fatto... La verità è che sono un ingenuo» «Sono sempre stato dalla parte di chi subisce violenza contro i sopraffattori» II carcere di Verziano dove è rinchiuso il giudice Diego Curtò (foto grande) A destra il parlamentare socialista di Brescia Guido Alberini Vincenzo Palladino (nella foto sopra) A destra, Raul Gardini

Luoghi citati: Brescia, Milano