Una notte strisciando nel tunnel di Sarajevo di Foto Reuter

Una notte strisciando nel tunnel di Sarajevo Una notte strisciando nel tunnel di Sarajevo IL CORDONE OMBELICALE DELLA BOSNIA ■SARAJEVO L Sole è appena tramontato. Un gruppo di leader della Bosnia centrale è riunito nella hall dell'Koliday Inn di Sarajevo: stanno per lasciare la capitale accerchiata, passando per il tunnel che ne è diventato il cordone ombelicale. La costruzione di questa galleria, che assicura un collegamento fra la città e il mondo esterno, ha richiesto quasi un anno ed è stata completata appena due mesi fa. Garantisce alle truppe una via per raggiungere la prima linea sui monti, e per riportare i feriti a Sarajevo. Inoltre consente di portare limitati rifornimenti di armi verso i tortuosi sentieri montani che arrivano fino in Bosnia centrale, dove le forze governative sono impegnate in una dura hattaglia. Il tunnel si protende sottoterra per quasi un chilometro. Il nostro percorso comincerà da quella che una volta era una casa di periferia nel distretto di Dobrinja, e passerà sotto le posizioni serbe. La delegazione della Bosnia centrale, venuta qui a discutere, in un'assemblea di due gior- ni, il piano di pace di Ginevra, parte alla volta di casa. L'autobus che ci prende all'Holiday Inn, nel centro della città, trova a fari spenti la strada fra i sobborghi di periferia. A Dobrinja aspettiamo fin dopo la mezzanotte. Soldati stanno tornando dal fronte attraverso il tunnel, ma la sezione è troppo stretta per permettere il transito in entrambi i sensi. C'è un'improvvisa esplosione di spari, ma Sarajevo è quasi in pace, stasera. Partiamo. La prima parte del viaggio avviene in una trincea aperta, come in un film di guerra. Siamo a poche centinaia di metri dalle linee serbe. Tutto è silenzio, a parte il rumore dei nostri piedi che sguazzano nell'acqua. E' una notte chiara. Il bordo della trincea è un po' al di sopra delle nostre teste. Le sagome degli alberi si stagliano contro il cielo notturno. Ci troviamo a non grande distanza dalla base dei Caschi blu, nella zona dell'aeroporto. Qui il battaglione francese pattuglia l'area militare dell'Onu gettando lampi di luce sui gruppi di persone che, non avendo il privilegio dell'accesso al tunnel, si preparano a fare la loro sortita sul terreno aperto. Mesi fa Zlatan Hrelja, medico della squadra bosniaca, ha fatto il suo tentativo assieme a trenta atleti che dovevano partecipare al Giochi del Mediterraneo a Montpellier. Corsero sotto il fuoco delle armi automatiche divisi in due gruppi: uno riuscì a passare, l'altro fu fermato dai Caschi blu. «Il tunnel non era ancora finito - dice per cui abbiamo dovuto correre attraverso l'aeroporto». Non hanno potuto partecipare ai Giochi perché sono stati bloccati dalle forze croate a 40 chilometri da Sarajevo. «Per due mesi abbiamo cercato di convincerli a farci arrivare alla costa, ma non abbiamo avuto fortuna, i Giochi sono finiti prima». Stanotte la delegazione di Tuzla gode del lusso di un tunnel. Vicino a me c'è il sindaco della città, in abito beige, con scarpe e calzini in mano e i pantaloni arrotolati sui polpacci. Dopo avere sguazzato per quasi Un chilometro di trincea raggiungiamo l'entrata del tunnel, nella cantina di una casa. Passiamo sottoterra entrando in una galleria alta circa un metro e mezzo e larga una sessantina di centimetri. Per i primi cinquecento metri è ben co¬ struita, con un'armatura d'acciaio e una pavimentazione per tenere i piedi all'asciutto. E' illuminata grazie a cavi elettrici che si allungano per tutto il percorso, e l'aria è sorprendentemente fresca. Lungo il tragitto ci sono nicchie in cui sono state lasciate barelle, macchiate di sangue, per agevolare il trasporto dei feriti. A metà il tunnel si allarga e ci sono persino panche per fare una sosta. Ma questa delegazione non ha tempo per fermarsi. Poi l'avanzata si fa più difficile. Il soffitto ora è più basso e la pavimentazione è sparita. L'acqua scura ci arriva alle caviglie. L'età dei viaggiatori varia: dal settantenne che deve fermarsi a tirare il fiato, a un bambino di tre anni di nome Amir. Di nuovo emergiamo nella cantina di una casa deserta. Qui, soldati che rientrano da due settimane di combattimenti sul monte Igman stanno aspettando il loro turno. I serbi sono già venuti a conoscenza dell'esistenza del tunnel di Sarajevo. Ma non sono riusciti a sopraffarne le difese alle estremità. Alla fine, una serie di trincee e sentieri di montagna porta i viaggiatori nel territorio tenuto dai bosniaci. Alle due del mattino, nell'oscurità del cortile di una fattoria, il nostro gruppo si affolla attorno a una vecchia pompa d'acqua per lavar via il fango dai piedi. Fra noi c'è Mevludin Besic, 35 anni, ex pilota e comandante della pattuglia acrobatica dell'Aeronautica jugoslava. «Nel 1987 ho volato su quell'aeroporto sopra a una folla di 200 mila persone - dice -. Adesso, ci striscio sotto». L'autobus previsto non è ad attenderci. Piove, e i delegati si raggruppano nel corridoio di una casa. C'è spazio solo per stare in piedi. Hanno poco da dirsi sui negoziati di Ginevra, finché l'uomo anziano osserva: «Questo passaggio è come dovrebbe essere la Bosnia alla fine dei colloqui di pace: un piccolo buco, e tutti affollati dentro». Tutti ridono. Che cos'altro potrebbero fare? Maggie O'Kane Copyright «The Guardian» e per l'Italia «La Stampa» «Qui si sta ammassati come nella futura Bosnia» Un bambino ferito: il tunnel è ormai l'unica via d'uscita dalla guerra [foto reuter]

Persone citate: Besic, Holiday, Mesi

Luoghi citati: Ginevra, Italia, Sarajevo