Day-Lewis: io una casalinga di Simonetta Robiony

Day-Lewis; io, una casalinga Day-Lewis; io, una casalinga Incontro con iprotagonisti di una storia senza futuro VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO Nonostante l'amicizia e gli spot per Armani, Martin Scorsese non ha imparato a esser elegante, e con mocassini sfoderati da portar a piedi nudi indossa invece calzini beige a piccoli rombi scuri. Assai più chic, seppure di quel casual trasandato che fa tanto «on the road» è Daniel Day-Lewis, scarnito fino all'anoressia, ma dolorosamente fascinoso nel suo gilet di lino stazzonato, collanina e capello da figlio dei fiori, mani lunghe e sensibili da artista inquieto. A differenza di De Niro, Daniel DayLewis non rappresenta sullo schermo la controfigura di Scorsese. Anzi, è quanto di più lontano da lui si possa immaginare. Aristocratico, nevrotico, lodatissimo dalla critica per il suo lavoro di attore teatrale e poi cinematografi- co, soprattutto per «Il mio piede sinistro», è diventato l'idolo delle adolescenti romantiche dopo aver interpretato «L'ultimo dei monicani» e aver amato, riamato, la difficile Adjani. Eppure, nonostante la felice congiunzione di bellezza e bravura, successo e denaro, Day-Lewis confessa di fare questo lavoro con fatica, di trovarsi davanti a un personaggio come una casalinga in un supermercato senza mai saper bene cosa prendere e cosa no, di considerare la sua voglia di esibir i come una spinta compulsiva dalla quale fuggire per aver pace o nella quale tuffarsi per trovar stordimento. Potrebbe sembrare una posa da eroe maledetto, scelta per accreditar ancora di più la sua immagine di divo che fa sognare le platee femmnili. Non lo è, perché quel che dice, Daniel Day-Lewis lo dice con fatica e ironia, la testa magra volta a fissare il soffitto oppure china verso il pavimento, gli occhi incapaci di guardar in faccia l'interlocutore, nessuno sforzo per rendersi accattivante. Sarà per questo che Martiri Scorsese, italoamericano di una Italoamerica piccola piccola, l'ha scelto per interpretare il protagonista di quell'America grande e potente, ricca e formalista, gentile e crudele, che fa da sfondo al suo film «L'età dell'innocenza?». Perché fosse diverso da lui, nobile, contorto fin dal primo apparire sullo schermo? Certo è che Martin Scorsese quest'America di Edith Wharton non l'ha mai conosciuta, neanche nei racconti dei suoi nonni. E non è chiaro, non lo sa neanche lui, perché, dopo aver descritto tanto bene il mondo chiuso dei piccoli gangster americani, da «Mean Street» a «Good fellas», abbia sentito il bisogno di raccontarci l'America degli happy few alla fine del secolo scorso. Scorsese, che ha appena perso suo padre, è arrivato a Venezia con la madre Caterina e le due figlie Dominica e Katherine. Cipiglio manageriale e aria spavalda sostiene di esser stato sedotto soprattutto dal racconto di una passione impossibile. «Non so perché ma volevo raccontare un amore irrealizzabile. Volevo parlare di una passione che le ferree regole sociali costringevano a non manifestarsi. Volevo mostrare l'intensità amorosa di due mani che si sfiorano, di una nuca scrutata in silenzio, di un bacio su un polso nudo, in quello spazio che resta tra una manica e un guanto. Forse è l'età: ho 51 anni e qualche illusione di meno». Il libro della Wharton, racconta, glielo prestò un amico al principio degli Anni 80. Lui però l'ha letto solo molto tempo dopo. Non ne sapeva niente. Più di tutto, lo ripete, gli è piaciuto parlare di un amore senza futuro. E per farlo ha scelto lo sguardo antropologico: minuziose ricostruzioni storiche, pranzi e cene d'etichetta; Michelle Pfeiffer e Winona Ryder, le due donne che si contendono il cuore di Daniel Day-Lewis, bionda e lontana la prima, bruna e maliziosa la seconda, qui a Venezia per dar lustro all'inaugurazione, ascoltano in silenzio finché arriva la domanda per loro. Ma tra l'amante e la moglie chi ha sofferto di più, secondo voi? «Naturalmente io, la moglie», è la risposta sfottente della Ryder. Mentre la Pfeiffer, come fosse davvero un quesito serio, se ne esce con un: «Ciascuna a suo modo», che lascia gelati. Simonetta Robiony

Luoghi citati: America, Venezia