Badoglio: «Ci ammazzano tutti»

Fuga all'alba: il viaggio della corte e del governo da Roma a Brindisi Fuga all'alba: il viaggio della corte e del governo da Roma a Brindisi Badoglio: «Ci ammazzano tutti» La strana scorta di un aereo tedesco 1|| ANNUNCIO al governo, al " Comando Supremo e alla corte - che si erano riuniti i in Consiglio della Corona LI nello studio del re al Quirinale - lo diede Vittorio Emanuele III, asciutto vecchio di 74 anni, baffi bianchi e freddi occhi azzurri, verso le 17,30 di quel mercoledì 8 settembre '43, festività del Nome di Maria: «Come le loro signorie sanno - esordì il sovrano aprendo la seduta affiancato dal duca Acquarone - gli anglo-americani hanno deciso di anticipare di quattro giorni la data dell'armistizio...». Nel consesso vi fu un moto di sbalordimento: i ministri De Courten, Sandalli e Sorice, il maggiore Marchesi e i generali Carboni e De Stefanis si guardarono sorpresi. Il ministro degli Esteri Guariglia, ch'era accanto a Badoglio, lo udì mormorare: «Siamo fottuti». «Veramente - esclamò De Courten interrompendo il re - io non sapevo nulla». In realtà non solo lui ma anche altri ministri erano stati tenuti all'oscuro del fatto che, già cinque giorni prima, il 3 settembre, l'Italia aveva firmato l'armistizio a Cassibile, nelle campagne di Siracusa, nelle stesse ore in cui gli Alleati sbarcavano in Calabria fra Reggio e Villa San Giovanni. Questo mistero dell'8 settembre uno dei tanti che neppure oggi, mezzo secolo dopo, sono stati chiariti - è il nodo della complessa manovra politico-militare architettata dal re e da Badoglio, dopo la caduta di Mussolini, allo scopo di salvare se stessi e la monarchia credendo, o fingendo di credere, che la loro salvezza coincidesse con quella del Paese. «Non voglio correre il rischio di fare la fine del re del Belgio. Desidero esercitare le funzioni di capo dello Stato, arbitro della mia volontà e in assoluta libertà. Non ho alcuna intenzione di cadere nelle mani dì Hitler», aveva confidato il sovrano all'aiutante Puntoni il 27 luglio '43 rivelando che il suo piano segreto, gelosamente celato a tutti, o quasi, era un improvviso rovesciamento dell'alleanza con la Germania, operazione che già gli aveva suggerito Grandi alla vigilia del crollo del fascismo e di cui Casa Savoia poteva vantare parecchi precedenti, storici voltafaccia come quelli di Vittorio Amedeo II, che durante la guerra di successione di Spagna era passato dal campo francese a quello austriaco, e di suo figlio, Carlo Emanuele III, il quale, addirittura, stipulava trattati di alleanza in cui era previsto il passaggio al nemico. A chiusura di quel Consiglio della Corona toccò a Badoglio, l'anziano capo del governo (avrebbe compiuto 72 anni di lì a venti giorni), dare alla radio la notizia dell'armistizio. Alle 19, abito grigio e cappello floscio, attraversando una Roma semideserta (la giornata caldissima aveva spinto numerose comitive al mare di Ostia; altre avevano raggiunto i Castelli e di lì, a mezzogiorno, avevano potuto assistere inorridite al bombardamento aereo di Frascati che avrebbe causato seimila morti) il maresciallo si recò all'Eiar di via Asiago e, nell'auditorio «0», attese che alle 19,43 gli operatori interrompessero una canzone «C'è una strada nel bosco», cantata da Gino Bechi - perché lo «speaker» Giovanni Battista Arista potesse dare 0 bollettino di guerra numero 1201, ultimo della serie. Poi, nel suo consueto pessimo italiano, lesse il comunicato sull'armistizio con quell'ambigua frase relativa alle forze armate italiane che cesseranno qualsiasi ostilità contro gli anglo-americani ma «reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza» (perché Badoglio, in nome del segreto, si era ben guardato di impartire ordini precisi alle nostre 80 divisioni dislocate in Francia, Corsica e Balcania lasciando così oltre due milioni di soldati esposti alle feroci rappresaglie tedesche). Al proclama dell'armistizio, nelle città e nei paesi si sciolsero ic campane, mute da tre anni, la gente scese nelle strade gridando «Viva la pace!» e nelle caserme i soldati inneggiarono alla «fine della naja» (e il sergente pilota Luigi Di Cecco, che già tre ore prima aveva ascoltato l'annuncio a una radio straniera, corse al comando dell'aeroporto di Borgo Panigale per chiedere dettagli ma il colonnello non gli credette e lo spedì agli arresti: «Sbattetelo dentro, così impara a fare il disfattista»). Prima di notte la famiglia reale, la corte, il governo e il Comando Supremo erano asserragliati nel palazzo del ministero della Guerra, in via XX Settembre, nell'attesa di eventi. Badoglio, che dopo aver cenato col figlio Mario era andato a dormire in una saletta al pianterreno, venne svegliato dall'aiutante alle 4 del mattino: si doveva partire subito da Roma per un «prudenzia- le trasferimento del governo» - trasferimento che, tuttavia, avrebbe dovuto essere momentaneo - per evitare la cattura da parte dei tedeschi e, al tempo stesso, mantenere i contatti con gli anglo-americani. Ma chi aveva preso quella decisione? Il re, nelle sue parche confidenze, lascerà intendere ch'egli partì perché ritenne proprio dovere seguire il governo. Badoglio, capo del governo, spiegherà che quell'idea fu suggerita all'alba di giovedì 9 settembre dal generale Roatta, accorso al Quirinale per avvertire che «la situazione stava precipitando» (c'era in aria - avrebbe detto - un colpo di mano tedesco contro il re e il governo). Roatta però, nelle sue memorie, non confermerà questa versione limitandosi a scrivere che fu il governo «a rinunciare all'ulteriore difesa di Roma» e che «il governo aveva disposto che il Comando Supremo e gli Stati Maggiori lasciassero anch'essi la capitale». Chi decise allora la fuga? Ambrosio? No. Il generale voleva addirittura rimanere e il re dovette ordinargli di seguirlo al Sud. Il principe Umberto? Neppure. Interrogato anni dopo dirà di aver saputo direttamente dal padre che di lì a poche ore «dovevamo lasciare Roma». Ma la storia attesta che si trattò di una fuga, e ben preordinata: altrimenti non si spiega perché già lunedì 6 settembre Ambrosio, capo di Stato Maggiore Generale, avesse detto al ministro della Marina, De Courten, di inviare due cacciatorpediniere a Civitavecchia «all'alba del 9 set¬ tembre, pronti a muoversi in due ore» (ma il re e Badoglio dovevano sapere in anticipo che non avrebbero preso la strada di Civitavecchia perché alle 6,30 del 9 settembre fecero accorrere a Pescara la corvetta «Baionetta», scortata da un incrociatore, che doveva imbarcarli alla volta di Brindisi). La critica storica non esclude, a questo punto, che Badoglio abbia potuto «vendere» il Duce ai tedeschi in cambio della fuga indisturbata al Sud. Si sa che il maresciallo aveva concordato con i carcerieri di Mussolini - custodito al Gran Sasso - l'eventualità di sopprimere il prigioniero a un suo ordine trasmesso con frase convenzionale o all'apparire di un soldato tedesco e Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, si rendeva conto delle colpe che avrebbe potuto avere agli occhi di Hitler se Mussolini fosse stato ucciso in un territorio che doveva essere sotto il pieno controllo tedesco. Il fatto è che alle prime luci del 9 settembre le diciotto strade che si dipartono da Roma furono tutte bloccate dalla Wehrmacht ad eccezione di una, la Tiburtina, sulla quale si avviarono le auto del re e del seguito, che tutto l'itinerario (Roma, Tivoli, Avezzano, Chieti, Pescara, Ortona a Mare) fu tenuto sgombro dal traffico militare pesante, che a ogni posto di blocco come scrive Puntoni nel diario non ci fu «nessuna difficoltà per il passaggio» e che infine un aereo germanico da bombardamento seguì dall'alto il viaggio per mare dei fuggitivi senza intervenire. Così, verso le 6 di quella mattina, una decina d'auto (ma ben presto altre, più di sessanta e tutte targate «Regio Esercito» e «Corpo Diplomatico» seguirono quelle dei fuggitivi) lasciarono il ministero della Guerra da un ingresso secondario: la Fiat 2800 reale col sovrano, la regina, Puntoni e il colonnello De Buzzaccarini; un'altra Fiat 2800 con Acquarone, Badoglio e il nipote Nino Valenzano, suo aiutante; un'Alfa Romeo col principe Umberto e quattro alti ufficiali; una Fiat 1500 con De Courten e Sandalli; un'Alfa Romeo con Ambrosio e Roatta, che portava il mitra a tracolla e quattro vetture, infine, con gli attendenti, i camerieri della corte e i bagagli. Il corteo uscì da Roma percorrendo via Napoli, via Nazionale, l'Esedra, via Gaeta, via Castro Pretorio, San Lorenzo e imboccò la Tiburtina Valeria. Fu fermato a cinque posti di blocco ma ogni volta De Buzzaccarini si sporse dal finestrino dicendo: «Ufficiali generali» ed ebbe via libera. A Tivoli una delle auto venne fermata dai paracadutisti della «Goering» ma non fu molestata anche se, nel ripartire di fretta, urtò di striscio un soldato tedesco. Il più agitato di tutti apparve Badoglio che sembrava ossessionato di cadere nelle mani dei tedeschi. «La frase che ripete sovente - annoterà Puntoni - è: "Se ci prendono ci tagliano la testa a tutti"». E Umberto narrerà più tardi: «Una notte gelida e Badoglio, che si era messo in borghese, tremava dal freddo. Io mi tolsi il cappottone di generale e glielo detti perché si riparasse. Badoglio lo infilò ma dopo qualche istante lo vidi che di nascosto rimboccava le maniche per nascondere i galloni». Il più tranquillo fu il re. A tratti conversava in francese con la moglie e lei, ogni tanto, chiedeva timorosa: «Tu est sur che Beppo va venir, n'est-ce pas?». «Beppo» era il principe, e Umberto in effetti era partito di malavoglia, non gli era sembrata una bella azione ed ora (a onor suo) stava vergognandosene. «So che rischio la pelle - disse al re durante una sosta - ma debbo tornare a Roma». Vittorio Emanuele III si oppose, altrettanto fece Badoglio (e c'è chi racconta che la regina supplicasse Umberto di rimanere dicendogli: «Beppo, tu n'iras pas, on va te tuen>; e il padre, di rincalzo, in piemontese: «Beppo, s'at più at massu ...», se i tedeschi ti prendono ti ammazzano). Verso le 11 del mattino di giovedì 9 i fuggiaschi arrivarono a Crecchie al castello dei duchi di Bovino. Mentre i cuochi tiravano il collo a due dozzine di polli, il ministro della Real Casa, Acquarone, partì in avanscoperta e quando fu di ritorno riferì che a Pescara non vi era l'ombra di un tedesco. Ma fu deciso di prendere imbarco ad Ortona a Mare, a tarda sera, «per non allarmare». Alle 23, sulla banchina del porticciolo, si trovarono ottanta auto e più di 250 persone: alla luce dei fari delle vetture si distinguevano generali, alti ufficiali di Marina e di Aviazione, decine di attendenti, valletti, camerieri e persino una dama di corte della regina; tutti avvertiti, chissà come, che ii re, Badoglio e la corte avevano lasciato Roma, di nascosto li avevano seguiti sperando di poter prendere imbarco con loro. Avvennero scene penose, come l'alterco fra i generali Armellini e Mariotti per stabilire chi avesse la precedenza a farsi trasbordare sulla corvetta «Baionetta». L'attesa sul molo - che si protrasse fin dopo la mezzanotte e mezzo - fu movimentata dalle urla di protesta degli esclusi, nel silenzioso stupore di una folla di oltre duemila ortonesi, pescatori, donne e vecchi. Le operazioni si complicarono per la momentanea scomparsa di Badoglio che, all'insaputa di tutti, era andato a Pescara ad avvertire la «Baionetta» di raggiungere Ortona e, prudentemente, aveva già preso imbarco (e il re, informato di quella sparizione, avrebbe mormorato: «Che ci abbia traditi?»). Finalmente, con l'aiuto di due pescherecci, cominciarono i trasbordi sulla corvetta su cui salirono cinquantasette persone ma il grosso dei fuggitivi rimase a terra fra battibecchi e liti in una indecorosa confusione. «Siamo della famiglia reale», dovette gridare Umberto per farsi iargo nella ressa. Dalla nave qualcuno esortò: «Via, signori ufficiali, un po' di dignità! C'è tra noi il re...» e dal buio del molo una voce rispose: «Sì, ma lui ce l'ha il posto per scappare». E su questa anonima eppure verissima sentenza il comandante della «Baionetta» impartì l'ordine di salpare per Brindisi dove si sarebbe concluso per sempre il mito della monarchia e di Casa Savoia. Giuseppe Mayda «Dignità! C'è il re». «Sì, ma lui ha il posto per scappare» Pietose liti fra i generali per decidere chi doveva imbarcarsi prima Qui accanto: la firma della resa. Nella foto grande in alto: una formazione di partigiani. Nelle due immagini qui sopra: a sinistra: Umberto di Savoia; a destra, Pietro Badoglio con il generale Taylor