Arafat il mitra appeso all'ulivo di Foto Ansa

Fu trascinato da Habbash nell'avventura che portò al Settembre Nero E permise Monaco per non essere esautorato Arafat, il mitra appeso all'ulivo Terrorista e guerriero, sempre inseguendo la pace IL LEADER CHE SCONVOLSE IL MONDO YASSER Arafat ha compiuto 65 anni il 24 di agosto. Quel giorno l'accordo «Gaza, Gerico: subito» era già cosa fatta ma per scaramanzia Abu Ammar chiese a Soha, sua moglie, ai pochi amici che gli sono rimasti, di rinviare gli auguri a «dopo». «La strada non è ancora aperta», spiegò. La strada verso la luce, vale a dire la pace. Sembrerà incredibile a chi non lo conosce o lo conosca soltanto attraverso la pubblicistica di parte che l'ha sempre descritto come un terrorista assatanato, volto a distruggere Israele, ma Arafat è da vent'anni che insegue la pace con Israele. Che, poi, sia stato costretto a combattere, frontalmente, clandestinamente e financo terroristicamente Israele fa parte delle contraddizioni ineludibili nel ruolino di marcia d'un «rivoluzionario-irredentista». Un uomo che ha fatto della causa palestinese la sua prima ragione di vita e, per tanto, ha sempre rifiutato di integrarsi nel mondo arabo. Nonostante la lingua, un fondo culturale comune e la retorica del panarabismo, i palestinesi si son sempre sentiti stranieri a Tunisi, nel Kuwait, al Cairo. Una volta, tanti anni fa, chiesi ad Arafat se fosse d'accordo con questa tesi. «E' proprio così» disse e, poi, «posso sapere chi è l'autore?», domandò. Il generale Yehoshafat Harkabi, già capo dell'intelligence d'Israele, risposi. Lui ruppe in una delle sue clamorose risate a comando, poi esclamò: «Non fa che scrivere cose turpi su di noi ma non c'è dubbio che abbia ragione, almeno in questo. Ci conosce bene». Nel 1964, dopo il primo congresso dell'Olp, i palestinesi hanno cominciato a chiamarsi ayidun, patrioti espatriati, non più rifugiati, nel segno di una fede e di un «meccanismo autoprofetico»; considerarsi privati della patria garantisce non solo che la speranza del ritorno lauda) non si affievolirà, ma che il ritorno ci sarà. Nel febbraio de! 1988 il falco Harkabi scrisse sul Jerusalem Post un articolo che fece molta impressione: «La forza delle cose, la realtà geopolitica costringerà Israele a sgomberare i territori e a negoziare con l'Olp». Quando, nelle ultime elezioni politiche, i laburisti stravinsero grazie al programma di Rabin tutto incentrato sulla pace, trovandomi a E' sempche siaa sabotai temp Gerusalemme volli incontrare Harkabi. Come mai, perché, lui, proprio lui aveva scritto quel che aveva sempre negato? Rispose: «La scelta da fare non è tra il cattivo e il buono. Anche un bambino può farla. Noi dobbiamo scegliere tra ciò che riteniamo cattivo e ciò che è peggio. Israele non può dominare i palestinesi. Dobbiamo riconoscere il loro diritto all'autodeterminazione». Erano le giornate euforiche della vittoria laburista. Lei pensa, domandai ad Harkabi, che Rabin sia in sintonia con lei? «Non lo so, so però che Rabin è un soldato e i vecchi soldati, come lui, come me, amano la pace perché sanno cos'è di spaventoso la guerra». Arafat non ha fatto altro che parafrasare Harkabi ripetendo durante ventuno mesi che l'Olp, a questo punto della sua storia, doveva scegliere non tra «il buono e il cattivo», bensì fra il «catti- vo» e il «peggio». In un giorno tiepido del dicembre del 1956, al Cairo, Eddie Pollack, il mitico corrispondente dell'Ansa, mi presentò, al caffè Groppi, il giovanissimo Yasser Arafat che, ridendo, si definiva un patriota palestinese aspirante poeta. In quel tempo Arafat aveva 27 anni, era reduce dal fronte (ufficiale d'un reparto di fodayn incursori), aveva già fondato la prima cellula di Al Fatah. Mi colpì che rifiutasse l'arak; mi turbò la passione con cui parlava della «nazione palestinese perennemente tradita dai corrotti regimi arabi». Passata la battaglia di Karameh, il 21 di marzo del 1968, stupiti e affascinati dal fatto che pochi scalcinati «ribelli palestinesi», avessero saputo tener testa agli uomini di Dayan (lasciarono sul campo ben 18 carri armati), un pugno di giornalisti ci precipitammo a Salt, non lontano dal terreno dell'unica, vera battaglia militare combattuta e non persa dai palestinesi. Un tipo tracagnotto, con una khefia a pepi rossi e bianchi, un enorme kalashnikov sul braccio, gli occhi celati da pesanti occhiali neri, tenne una conferenza stampa dura, arrogante. «Sapete cosa vuol dire Karameh? Vuol dire: dignità». E aggiunse che Al Fatah, avrebbe combattuto fino alla vittoria contro Israele. Quell'omino deciso e ispirato, piuttosto in carne tuttavia, venne immortalato da Time che gli dedicò la copertina. Il suo accento tipicamente egiziano, la sua voce in falsetto mi ricordavano qualcuno. Quando si tolse gli occhiali riconobbi il giovine amico di Pollack. Ma lui disse di non ricordare quell'incontro da Groppi, mi liquidò con poche battute fredde. Da duro. Più tardi, nell'aprile del 1970, ad Amman, a bocce ferme, parlando parlando quel ricordo venne fuori e Arafat prese a parlarmi (e non ha mai smesso da allora) non da capoguerrigliero bensì da politico. Un politico che tuttavia commise l'errore di farsi trascinare in un'avventura presuntuosa da George Habbash, convinto che il trono di Hussein fosse talmente tarlato che bastava «un colpettino» per farlo rovinare. E invece fu il terribile «settembre nero» che decimò l'Olp e costrinse i fedayn a riparare nel Libano. Settembre Nero è anche il nome della organizzazione terroristica palestinese. Quella dell'attentato di Monaco, al villaggio olimpico. Sono stati versati davvero fiumi d'inchiostro su Monaco. Molti han sostenuto che furo¬ no le schegge impazzite dell'Olp a volere quella terribile azione. No. E' vero che dopo la strage di Lod (un altro colpo basso di George Habbash) Arafat inorridì denunciando la «perdita d'immagine», ma è anche vero che a un certo momento, lui e gli altri, decisero, ancorché contrari al terrorismo, di «unirsi ai terroristi per dominarli». Ma fu anche perché temevano di esser fatti fuori dagli «estremisti» che Arafat e gli altri lasciarono che Abu Jihad organizzasse Monaco. Paradossalmente fu la guerra del Kippur a salvare Arafat e l'Olp dopo il disastro, fisico e morale, che seguì Monaco. In meno di un anno l'Olp e Arafat diventarono inopinatamente «garanti» della democrazia in Libano. Il 9 di agosto del 1974 Nixon, travolto dal Watergate, si dimise. Il 25 di marzo del 1975, re Feisal venne assassinato. Nel tempo corso fra questi due drammatici accadimenti, Arafat conquistò due immense vittorie politiche. Nell'ottobre del 1974, la Lega araba riconobbe l'Olp come l'unica, legittima rappresentante del popolo palestinese, mettendo fuori giuoco Hussein. Un mese dopo quel riconoscimento fu avallato dalla comunità internazionale: Arafat pronunciò dalla tribuna dell'Onu il famoso discorso del fucile e dell'ulivo. Alla fine del 1973 Arafat aveva maturato l'idea della «pace col nemico». Già allora Abu Ammar s'era «rassegnato» al mini-Stato poiché sapeva che la liberazione di tutta la Palestina, lo Stato multiconfessionale «erano una devastante utopia». Nixon venne informato della «clamorosa intenzione» di Arafat, e spedì il generale Vernon A. Walters in Medio Oriente, nel marzo del 1974, per un incontro segreto con due esponenti dell'Olp. Khaled Hassan (uno dei due) testimonia che il generale Walters «capì che eravamo sinceri e si entusiasmò. "Anche il Presidente ne sarà felice", disse Walters». Ma perché e come fallì tutto? Risposta: «Fu Kissinger a sabotare la pace». Arafat sostiene che esistono le prove del «sabotaggio» di Kissinger. Lui e gli altri sono convinti che Nixon venne liquidato e re Feisal ucciso proprio «per tenere nel canile i palestinesi». Ci sarebbe una lettera di Nixon a re Feisal che dice: «Maestà, si fidi di me: renderò giustizia ai palestinesi». Ma è nel 1988, ad Algeri, che avviene la prima «svolta»: Arafat, sollecitato dai palestinesi dell'interno, quelli doc, che mandano avanti l'Intifada a caro prezzo, riconosce Israele richiamandosi alla risoluzione 141 dell'Onu Quandsua maè un letutti i to (1947). E' il novembre. Il 18 di dicembre, Reagan apre il «dialogo» con l'Olp. Non tutto è andato per il giusto verso, la destra israeliana ha distrutto il «dialogo», poi c'è stata la guerra del Golfo con l'improvvido schierarsi, ancorché in stato di necessità, di Arafat con Saddam Hussein. Epperò in tutto questo terribile ultimo tempo di disgrazia, Arafat non ha mai ceduto d'un pollice: «Dobbiamo puntare alla pace con Israele», non ha fatto che ripetere ai suoi. Il «Gaza, Gerico: subito» non è neanche il preludio alla pace: è soltanto una piccola breccia nel muro dell'odio antico, un lume fioco nel tunnel di cent'anni di Palestina amara. E tuttavia, qualsiasi cosa accada, dice Arafat, «nessuno oramai può tornare indietro». Grande tattico, mediocre stratega, un po' romantico, un po' gigione capace com'è di piangere o di gridare a comando, Arafat, nel bene e nel male, ci si rivela un grosso animale politico, un protagonista della storia contemporanea. Un uomo onesto, in tutti i sensi. Terrorista o pacifista? Codesto interrogativo non ha più senso, oramai. La storia legittima chi combatte per una giusta causa. Quando nacque, al Cairo, il 24 di agosto del 1928, le vicine, stupite della sua piccolezza, dissero a sua madre che aveva partorito un topolino. Ma Zahwa («orgoglio e bellezza»), una donna robusta di forte ossatura protestò ridendo: «Mio figlio è un leone e schiaccerà tutti i topi della Terra». Ha ingoiato molti rospi il «terrorista» Arafat; riuscirà il «pacifista» Arafat a schiacciare i topi che vogliono rodere l'albero di ulivo della pace? Igor Man Quando nacque, 65 anni fa sua madre disse: mio figlio è un leone e schiaccerà tutti i topi della Terra E' sempre stato convinto che sia stato Kissinger a sabotare l'intesa ai tempi di Nixon, nel 74 Fu trascinato da Habbash nell'avventura che portò al Settembre Nero E permise Monaco per non essere esautorato Foto grande: Arafat con il leader egiziano Mubarak Qui accanto due palestinesi commentano il piano di pace [FOTO ANSA]