BENJAMIN ESCE DALL'OMBRA di Luigi Forte

BENJAMIN ESCE DALL'OMBRA BENJAMIN ESCE DALL'OMBRA Le provocazioni del filosofo MARRIRSI come ci si può smarrire in una foresta, annotò una volta Walter Benjamin, uno degli intellettuali più problematici e significativi della cultura ebraico-tedesca del '900, è cosa tutta da imparare. Non è perdita d'orientamento, ma sguardo nuovo, gettato sulle cose. Lui pensava alla città, al nido della sua infanzia: Berlino agli albori del secolo dov'era nato nel 1892. Vi scivolava dentro leggero come Alice nel Paese delle Meraviglie. Lo osservavano cariatidi e pomone, folletti e coboldi. A quel tempo probabilmente risale la prima inconsapevole traccia di una figura centrale nelle sue future riflessioni sulla modernità: il flàneur. Il soggetto cioè, che bighellona per la metropoli e non ha scordato la capacità di osservare e di apprendere. E' l'elogio della lentezza contro le pulsioni nevrotiche di passanti frettolosi, l'omaggio a quel lontano bimbo perso negli spazi dell'immaginazione. Ma smarrirsi è anche la vocazione del lettore che s'avventura fra le pagine di Benjamin di cui Einaudi pubblica ora, nel quadro delle opere complete in dodici volumi a cura di Giorgio Agamben, il quinto tomo. Ombre corte. Scritti 1928-1929 (pp. 641, L. 65.000), un vero e proprio zibaldone di saggi, recensioni, interviste, testi per la radio, lemmi. Diciamo subito che grandi novità questo volume non ne contiene, almeno per quanto riguarda i testi più significativi, in gran parte già noti da precedenti antologie sempre di marca einaudiana: dai saggi sulla letteratura in Avanguardia è rivoluzione (1973) a Immagini di città (1971), da Sullliascisch (1975) a Critiche e recensioni (1979). Eppure la loro attuale disposizione cronologica porta nuova linfa in queste pagine, le proietta direttamente nel libro della vita, nel laboratorio in progress dell'autore. E smarrirsi diventa non solo un desiderio, ma un gesto di amore totale. Ombre corte va letto come un diario appassionato, tenuto accanto come un livre de chevet: suscita idee, abbozza itinerari inconsueti, guida verso anticaglie abitate da giocosi spiritelli. Dentro c'è un po' di tutto come in un bazar: novità sui fiori, pagine su abbecedari e giocattoli, glosse sul cibo, verbali di esperimenti con l'hashish (in compagnia dell'amico filosofo Ernst Bloch), annotazioni sul teatro delle marionette. E poi visite a San Giminiano e Marsiglia, scorribande per Parigi sfogliata come un volume «perché in essa opera uno spirito che è affine ai libri», una sosta affettuosa a Weimar fra le pareti dello studiolo di Goethe, su cui Benjamin stava preparando una lunga e impegnativa voce per la Grande Enciclopedia Sovietica. E' un turismo che fonde realtà e cultura, legge il passato nella filigrana del presente, isola allegorie e modelli nel gran magazzino della modernità. Dove si assiepano, di fronte agli incombenti fantasmi della Grande Crisi, personaggi e autori in vena di dubbio: una galleria di ritratti che compone un'epoca e svela inquietudini e amori del grande critico. C'è Gide intervistato nel gennaio del 1928 e Karl Kraus che legge Offenbach in una magica serata. C'è la labirintica memoria di Proust, di cui Benjamin traduce la Recherche, e Chaplin che sembra uscito da un romanzo dello svizzero Robert Walser che lo scrittore berlinese, alla pari di Kafka, ama alla follia. Poi Julien Green, i vagabondi di Knut Hamsun e Dostoevskij collocato originalmente nella letteratura d'avanguardia e, non a caso, ancora presente qui nello splendido saggio sul surrealismo. Può stupire che nel Parnaso dei grandi che ci raccontano il Novecento siano finiti anche tanti nomi sconosciuti ai più e oggi forse solo degni di una tesi di laurea. Anche Benjamin magari non ne andava pazzo, ma gli toccava re¬ cpldcfbscli alter sum censire per sbarcare il lunario dopo la doccia fredda ricevuta dall'università di Francoforte che nel 1925 gli aveva rifiutato il lavoro di abilitazione, Il dramma barocco tedesco (Einaudi 1971), opera fondamentale su allegoria ed emblematica pari per importanza al suo grande frammento sulla modernità Parigi capitale del XIX secolo (Einaudi 1986). Si potrebbe obiettare che il lettore non è tenuto a fare il pieno di materiale antiquario, a subirsi recensioni di autori (da Hans Heckel a Frey, da Itzerott alla principessa Bibesco) che devono fama peritura alle abili riflessioni di Benjamin. Ma tant'è: un'edizione di questo tipo ha le sue regole e la completezza (anche se un tantino pedante) è di prammatica. Del resto il metodo di lavoro di Benjamin, non dissimile da quello di Stendhal, mirava ad evidenziare i tratti rilevanti di un processo partendo da quelli apparentemente marginali. Egli era un micrologo, come osserva in un agile ed utilissimo libretto il grande germanista Hans Mayer, Walter Benjamin. Congetture su un contemporaneo (Garzanti, pp. 85, L. 16.500). E ha ragione lui (come Agamben) a non tralasciare nulla. Ci dice infatti di più sulla sociolo- er Benjamin Uno zibaldone di pensieri su hashish, fiori marionette: min magazzino del moderno già e ricezione del romanzo d'appendice, sugli stereotipi letterari, sull'immaginario collettivo delle classi subalterne un breve intervento benjaminiano dal titolo Romanzi per le domestiche del secolo passato che un ponderoso studio sulla letteratura dell'Ottocento. Anzi, nel caso specifico, esso anticipa qualcosa: la futura fame di fotoromanzi e telenovelas. Difficile sottrarsi al fascino dell'eccentricità, della bizzarria che nello scrittore berlinese fanno tutt'uno con i guizzi di un'intelligenza imprevedibile e la curiosità sfrenata, la ludica tassonomia dell'archivista. E' come se Benjamin, prima ancora che il lettore, volesse meravigliare se stesso, smarrirsi insomma, con variazioni sul tema (si veda, ad esempio, le connessioni fra l'atto del leggere e quello del mangiare in Letteratura per l'infanzia), straniarti analogie, gnomiche uaitute. Ombre corte dissimula appena la vocazione di fondo che questo scrittore ha esternato con sapiente magia nel volume di brevi prose Strada a senso unico (Einaudi, 1983): il gusto dell'aforisma a cui Nietzsche aveva dato profondo slancio. Come se ogni frase tendesse alla citazione, alla patente di verità. Ma, a ben guardare, pochi tra gli intellettuali della sua epoca onorano il dubbio quanto Benjamin tentando la verità per strade spesso diseguali e opposte. Egli non ha saputo scegliere, scrive Mayer, tra i molti paradisi artificiali che gli si prospettarono: Mosca e il comunismo, che gli diventano più familiari grazie all'amicizia con la rivoluzionaria lettone Asja Lacis conosciuta a Capri nel 1924. Oppure Gerusalemme, verso cui da tempo lo spinge l'amico Scholem. O ancora: il Principio Speranza di Ernst Bloch, troppo trionfalistico per una natura come la sua. Sospeso fra Illuminismo e mistica (e anche per questo in odore di eresia presso gli animatori dell'Istituto di ricerca sociale di Francoforte, Horkheimer e Adorno con cui collaborò), fra teologia e materialismo storico, Benjamin si è visto spesso tirare per i capelli da fazioni diverse. Era un ebreo scomodo, un intellettuale impermeabile a sistemi e ideologie, un inquieto demistificatore del progresso e delle contraddizioni della modernità capitalistica: questo l'uomo dalle immense doti votate al fallimento. Di qui l'osservazione tutt'altro che paradossale fatta da Mayer: Benjamin con l'aureola di una fama postuma e universale è la quintessenza della sconfitta. Non vede riconosciuti i propri progetti e le proprie ambizioni, lascia frammentario il grande lavoro su Parigi al cui centro vi è l'amato Baudelaire e la storia della civiltà borghese, vagola nella solitudine dell'esilio e accarezza il sogno di morire giovane. Di lì a poco, nel 1940, tentando di lasciare la Francia occupata dai nazisti e in preda all'angoscia della cattura, si darà la morte. Il destino lo ha tragicamente aiutato nel fallimento definitivo. Eppure pochi come Benjamin ci hanno aiutato a capire i fallimenti e le contraddizioni del nostro tempo. E' ora di ritentare un bilancio ed una più serena valutazione dopo la crisi del comunismo e il generale disorientamento specie a sinistra. Ora che il suo nome circola sempre meno nelle note a pie pagina o sulla bocca di convegnisti apocalittici e integrati. Forse si vedrà quanto precaria fosse l'immagine dell'ottimista tecnologico che teorizzava la riproducibilità tecnica dell'opera d'arte (e quindi la sua scomparsa) o quella dello scrittore che pensava ad una «lunga via» per gli intellettuali volti alla critica radicale dell'ordine sociale e alla riforma degli strumenti di produzione. Parole e prospettive che sembrano arrivare da altri pianeti, popolata com'è oggi la nostra realtà da transfughi e voltagabbana che amano le più comode scorciatoie. o Resta invece, produttiva e provocatoria, la sua diffidenza verso ogni sistema, verso verità incasellate. Fra le sue Tesi di filosofia della storia pubblicate postume, la IX menziona un quadro di Klee, che Benjamin possedeva e gli era molto caro: Angelus Novus. Esso ritrae un angelo con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese: si allontana da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Nell'immaginazione dello scrittore è divenuto un'allegoria dell'angelo della storia che osserva le catastrofi del passato, mentre un vento inesorabile lo spinge verso il futuro: questa tempesta è il progresso. Qualcosa di inesorabile che, se non riequilibrato a misura d'uomo, continuerà a lasciare sul terreno vittime e macerie. Di fronte a tale spettacolo, con amara ironia, potremmo usare le parole, da lui menzionate, di un personaggio di Hofmannsthal: «Sto troppo bene per sperare». Bene forse come lui, nelle molte sconfitte subite, che riportano alla realtà del nostro presente e ci insegnano a superarla: «Chiusi dentro un carro armato diventiamo sordi e inaccessibili - leggiamo in Ombre corte - cadiamo in tutti i fossati, attraversiamo tutti gli ostacoli, solleviamo fango e deturpiamo la terra. Ma solo dove siamo così insozzati siamo invincibili». Luigi Forte