Trionfa Guardi pitocco seduttore

Grande retrospettiva alla Fondazione Cini nel bicentenario della morte Grande retrospettiva alla Fondazione Cini nel bicentenario della morte Trionfa Guardi, pitocco seduttore Visioni e capricci del Canaletto dei poveri 7«1 venezia l'I si lasci scivolare come I dentro la pingue rilassatez1 j za di un rio, navigando nel l'acqua catturante della retrospettiva di Francesco Guardi, che celebra il bicentenario della scomparsa, alla Fondazione Cini (fino al 21 novembre). Mostra saggiamente concertata (dall'infaticabile Alessandro Bettagno, coadiuvato da Marina Magrini, Francesca del Torre e altri studiosi) come un'articolata sonata settecentesca, alla Boccherini. Si passa dall'armonico Andantino (non ancora spianato, ma galantemente introduttivo) dei folgoranti Disegni, impregnati degli umori di laguna e dal nervosismo preparatorio delle cerimonie dogali, al grave e luminoso Larghetto delle Vedute, San Marco imbelletata per le feste e melanconici scorci di tramonto, verso Santa Lucia; con il cabinet narcissico di tutte le languorose panoramiche incentrate intorno all'isola di San Giorgio. E infine lo spiritato Minuetto dei Capricci, già inquietati dallo spettro delle rovine, con poi la coda guizzante e inattesa di uno Scherzo pre-romantico, alluso dalle Feste, davvero poco rassicuranti (basterebbe quel nero kubrickiano di pece della Cena al Teatro San Benedetto, per dire lo spirito uggioso e visionario di Francesco). Ritagliate a se, infine, nel Palazzo Cini di San Vio, le Danze da Ratto del Serraglio delle Turcherie della bottega Guardi, che tratteremo in altra occasione, toccando originalmente un capitolo assolutamente autonomo. Certo non è possibile più fare oggi una retrospettiva-monstre come quella curata da Pietro Zampetti nel '65, più di 200 opere e l'ancora insoluto problema di «districare la veneta matassa» dei figli e fratelli di casa Guardi, ma funziona benissimo così questa retrospettiva di grande riposo e decantamento dei problemi, di pura contemplazione dei capolavori del solo Francesco: rassegna che ripropone l'inesplicabile mistero deU'«alto» carattere di questo artista, solo recentemente rivalutato dalla critica. Maltrattato, all'epoca, dai conoscitori accecati dal gusto neoclassico, insospettiti dalla libertà neurotica di questo «Canaletto dei poveri», che incancreniva nell'obbligo umiliante delle copie, dentro gli scurori della bottega del fratello Gianantonio. Erano gli anni in cui il pittore Armani (ogni. secolo, il suo stilista) giudicava «troppo pittoresca e negligentata» fin l'arte pignola del Canal: figurarsi questo seguace pitocco, che disponeva le architetture del Canal Grande a volontà nel suo panopticum fantastico, e le smaterializzava disossandole, nella sua grafia rapinosa e quasi irritata. E sottraeva ogni certezza ai monumenti di marmo polverizzandoli in un brusio incendiato, da dialogo pettegolo alla Gozzi. Non ebbe fortuna, come racconta Haskell nel catalogo Electa e lo evoca come una patetica figura, alla Schnitzler, di artista incompreso e umiliato. Disposto nelle poche lettere rimasteci a ribadire la sua «persona onesta et onorata» e l'accondiscendenza umile neh"«attendere alle ordinacioni» e ad accettare pure l'ingiunzione del giudice «a ribassare il prezzo» di alcune vedu- te. Liberamente esportato per il mondo del piccolo collezionismo, tanto era prolifico e «la progettata esportazione» delle sue molte tele «non possa riguardarsi come una delle sottrazioni dannose» al Paese. Tenuto nel libro paga, tra le elemosine, come un mendicante, dal suo committente Edwards, che aveva licenza di ottenere correzioni a quadro finito e poteva pilotare in anticipo fin la disposizione delle sue figurette. Quello stesso Edward che richiesto dal Canova di trovare qualche degna veduta veneziana, lo avvertiva: «Restano le cose del Guardi, scorrette quanto mai, ma spiritosissime... Ella sa però che questo pittore lavorava per la pagnotta giornaliera, comprava le telacce di scarto con imprimiture scelleratissime e per tirare avanti il lavoro usava colori molto oliosi. Chi acquista dei suoi quadri deve rassegnarsi a perderli in poco tempo». «Spiritosissimo» lo definiscono in molti, ma lo confrontano subito a Canaletto, «Non potendo egli competere con il maestro nell'esattezza delle proporzioni e nella ragione dell'arte» (Moschini, 1806). Irrazionale manipolatore della visione, il Guardi, che sembra volontariamente emanciparsi dall'esattezza fredda e diligente del Dottor Ottico, con le sue «cose graziosette e nient'altro» prende a impiparsene delle certezze topografiche (che pure plagia abbondantemente da Marieschi, Visentim e Carlevarijs) ma poi pensa soltanto alle «arie», a raccontare le minime variazioni di luce, le elettriche atmosfere che indispettiscono le sue vi¬ suali leggermente altezzose (come dall'alto della Villa Loredan attorniato da un vuoto aristocratico), la spettinata vitalità mortuaria della sua Venezia, visitata dai Papi e maritata dai Dogi, che sembrano naufragare nella spuma cerimoniosa delle pompe settecentesche. Giustamente lo definisce un altro erudito suo contemporaneo, il Vianelli: «Spiritoso nell'inventare, spetto nell'architettura, nel contraffare i terreni, nell'espressione dell'aria e dell'orizzonte». Ritrattista dell'atmosfera, Guardi anima i cieli e gli anfratti delle casupole lagunari e la rada pasticceria delle nubi imburrate di rosa, quasi fossero caratteri, personaggi dagli umori instabili, teatrali. Diceva il Missaglia, che se «il Canaletto appaga, Guardi seduce». Abissalmente. Non ha senso censire i suoi dettagli, distinguere turisticamente quella calletta dal campiello, scernere un infisso secolare dal panno steso all'istante: conta per lui l'atmosfera, l'aura complessiva che circola per la tela, spesso plumbea e biscottata, moribonda. Se Bellotto cuoceva in un nitore minerale, arcano, l'esattezza più solare del «celebre zio», Guardi, quella fedeltà ottica, sordamente l'incendia, la lascia sadicamente tramontare, in certi affocati colori tropicali, o nella slontanante nebbia di ghiaccio, che intrappola la veduta bellissima del Canal Grande della von Thyssen. Il tema della rovina non è casuale nella sua pittura: un brivido di febbrile testabilità attraversa galvanicamente i suoi orizzonti sconfinati, di una Venezia che si accinge a di¬ venire quella Fata Morgana che presto meduserà i poeti decadenti. Questo processo è già pienamente consapevole nei suoi meravigliosi disegni dove l'inchiostro annacquato non simula più l'impettita stabilità dei palazzi ma li trafora di un'inquietudine spettrale di una trasognata vuotaggine di fantasmi. Ricami d'architettura, come quinte ideali delle eccitate figure callotiane, seminate di schiena per Campo San Marco, oziose macchiette alla Magnasco, cui abbiamo delegato il compito ingrato di spettatori di tanta regale agonia. Perfino i gondolieri sembrano d'incanto smettere il loro raggomitolato impegno agonistico: si fermano, folgorati dall'acida ferita dell'inchiostro. Un vento sinistro e infetto contamina e coinvolge le figure, i palazzi, gli ac- ciottolati: perfino il classico progetto palladiano del Ponte di Rialto si sfibra in un vibratile ectoplasma stenografico che allarma la Laguna. E' come se la compressione nervosa ed autolesiva dell'artista non mai riconosciuto (accettato all'Accademia quando aveva 72 anni) lentamente ulcerasse le superfici, come brace che lavora nel silenzio, smangiasse contorni e certezze: in alcuni angoli della Serenissima al tramonto si accanisce una battaglia di vele dal colore tostato, di prospettive in duellante contrasto. Piovono cordami e sartie come funebri zuccheri filati, cascami di vele scendono come calze lente di borbottanti Rusteghi goldoniani e soffocano in una ragnatela micidiale le imbarcazioni avviate alla cerimonia. Un sinistro processo di glaciazione progressivamente attanaglia la micragnosa biologia già avvelenata della città. Con irritabilità da spadaccino, Francesco tocca la tela, accende di bagliori ormai leopardiani, firma con i suoi tic caratteriali le spume eccitate dei domestici marosi color panna acida e le capocchie incendiarie dei suoi vulnerabili personaggini: esplodono furiosamente gli abiti delle dame coinvolte nelle cerimonie pontificali, brillano di festosa mestizia le architetture effimere piantate in piazza San Marco per la festa della Sensa. E' significativo vedere come Guardi trascriva nella propria calligrafia sovreccitata i capricci archeologici di Marco Ricci o come riscriva i paesaggi olandesi di Van der Welde, patinoires e abiti calvinisti ravvivati dai suoi stilemi quasi automatici. Ma è poi in quel grumo di solitudine amara, isolata nello stupore del silenzio, della lugubre e serafica gondola del Poldi Pezzoli, che forse meglio si esprime la sua dolorosa poetica di artista che soffre la sua vita dentro la pasta del colore. Marco Vallerà Così la critica ha riscoperto un genio che fu in vita incompreso e umiliato, ricompensato come un mendicante Francesco Guardi: accanto al titolo, «Canal Grande con Santa Lucia e gli Scalzi». Qui sopra, la «Danza dei Dervisci». A destra un'altra celebre veduta del Canal Grande. La mostra veneziana è aperta (ino a novembre

Luoghi citati: Rialto, Venezia