I Vitelloni sulla Laguna

E Vittorio De Sica scandalizzato rifiutò la parte dell'omosessuale quel giorno. Quarant'anni fa à Venezia il primo successo del regista FELLINI / Vitelloni sulla Laguna A Ferrara, al telefono, la voce di Fellini sembra così lontana, sottile: «E' un lungo percorso, questa terapia, dopo un brutto scivolone... E voi che fate? Andate alla Mostra di Venezia?». Andiamo. La cinquantesima edizione della Mostra, appuntamento di settembre della gente di cinema, comincia martedì: e pensando a Fellini non ancora risanato viene naturale ricordare un'altra edizione del festival, la quattordicesima del 1953, quella in cui nessun Leone d'oro fu assegnato dalla giuria presieduta da Eugenio Montale ma il giovane regista trentaduenne, con i suoi attori altrettanto giovani (Alberto Sordi trentatré anni, Franco Interlenghi ventidue, Franco Fabrizi ventotto), ebbe quarant'anni fa il primo Leone d'argento e il primo grande successo per un film divenuto proverbiale, I vitelloni. Les inutiles in francese, Los senoritos in spagnolo, The Drones (I pigri) in inglese, Die Mussiggànger (Gli scioperati) in tedesco, scritto con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, ritratto di provincia italiana attraverso un gruppo di «cronici minorenni della vita», più volte riecheggiato o imitato nel corso del tempo da altri registi (Juan Antonio Bardem in Calle Mayor, Lina Wertmùller ne I basilischi, Martin Scorsese in Main Streets), famoso nel mondo, a Venezia I vitelloni piacque moltissimo. Ma non senza riserve: alcuni critici della sinistra gli rimproverarono la non corretta formulazione di problemi sociali, alcuni critici moderati deplorarono la «inutile grossolanità dell'episodio dell'attore vizioso e anormale», la «pederastica allusione di pessimo gusto», mentre per collettiva reticenza perbenista neppure venne citata la scena cruciale in cui i vitelloni, tornando in automobile verso la città, incrociano alcuni operai che stanno riparando la strada e che Sordi sfotte con un gestaccio e una pernacchia: «Lavoratori... lavoratori della mazza...». E' l'aria del tempo, l'aria chiusa degli Anni Cinquanta. Nel 1953 muore Stalin; si combatte e vince in Parlamento e nel Paese la battaglia contro la legge elettorale maggioritaria detta «legge truffa»; dopo le elezioni del 7 giugno in cui la democrazia cristiana ottiene il 40% dei voti e l'opposizione di sinistra il 37,3%, Alcide De Gasperi viene clamorosamente battuto nel voto di fiducia al suo ultimo ministero e Giuseppe Pella diventa presidente del Consiglio d'un governo monocolore democristiano; a settembre i critici cinematografici Renzo Renzi e Guido Aristarco, colpevoli d'aver pubblicato un soggetto cinematografico sull'occupazione fascista della Grecia intitolato L'armata s'a gapò, vengono arrestati per «vilipendio delie Forze Arma te» e finiscono nel carcere mili tare; a novembre, durante manifestazioni nazionaliste a Trieste, la «polizia civile» in glese che ancora sovrintende all'ex Territorio Libero spara, provocando sei morti e sessan ta feriti. A Venezia la Mostra del cine ma rivede, per la prima volta dopo anni d'assenza, film del l'Unione Sovietica. Sulla spiaggia Errol Flynn passa ore disteso su un'asse di legno per ri mettere in sesto la colonna ver- tebrale, Raf Vallone passeggia ingrugnato sotto il sole, Marcel Carnè e Roland Lesaffre sembrano soddisfatti dell'esito di Thérèse Raquin, Audrey Hepburn ha incantato tutti in Vacanze romane ma il premio per la migliore attrice va a Lilli Palmer. La lingua internazionale è ancora il francese. All'Hotel Des Bains, racconta Tullio Kezich nel suo prezioso Fellini pubblicato da Camunia, alla troupe dei Vitelloni, «in un susseguirsi di bicchierate e notti bianche, sembra di vivere un altro episodio del film: Federico tornerà alla Mostra molte altre volte, ma non ritroverà più l'atmosfera festosa di queste giornate». Dissenso, chiasso e proteste accolgono le decisioni della giuria che, come tutte le giurie, ne ha fatta una delle sue: niente Leone d'oro, sei Leoni d'argento a pari merito (applausi per quelli ai Vitelloni, a Ugetso Monogatari di Mizoguchi, a The Little Fugitive di Ashley, minore entusiasmo per Moulin Rouge di John Huston), quattro Leoni di bronzo inventati all'ultimo minuto per compiacenza e diplomazia, nessun premio all'estremo film di Pudovkin. Il ritorno di VasilijBortnikov. Alla serata finale i contrasti e l'atmosfera tesa durano poco di fronte alla gran sorpresa, il Cinemascope presentato in Italia per la prima volta: «Lo schermo occupa tutta la parete di fondo, larghissimo e schiacciato; le immagini vi si proiettano, vi si stendono anzi, con estrema scioltezza», riferisce la cronaca de La Stampa. «Si ha davvero l'impressione, dinanzi ai grandi avvenimenti di massa, di trovarsi al centro della manifestazione, di essere circondati dalla folla e dai rumori: si entra nel vivo della azione, non più spettatori ma protagonisti. Il pubblico ne è stato rapidamente conquistato, successo enorme». Michelangelo Antonioni è meno allegro, la Mostra gli ha fatto uno scherzo molto brutto: il suo I vinti, tre episodi (france- se, inglese, italiano) sulla condizione dei giovani nel dopoguerra, è stato tolto bruscamente dal concorso. Motivo ufficiale, il doppiaggio in italiano. Motivo reale, l'opposizione recisa dei francesi che hanno già sequestrato il negativo vietandone l'ingresso in Francia, giudicando lesivo del loro onore e della loro dignità nazionale l'episodio «Les trois tragiques», ispirato a un fatto di cronaca, nel quale tre studenti uccidono con fredda premeditazione un loro coetaneo per derubarlo e con i suoi soldi fuggire da Parigi, costruirsi altrove una vita diversa. Per l'intervento delle autorità francesi il destino del film rimane incerto, alla Mostra I vinti viene escluso dalla competizione e quasi messo in quarantena, Antonioni reagisce impaziente: «Situazione veramente penosa. C'è chi i festival li vince in par¬ tenza e chi in partenza li perde. Cosa ci posso fare?». Certi interdetti si estendono persino al passato. La proiezione de L'àge d'or, il film surrealista di Luis Bunuel e Salvador Dali, prevista nella retrospettiva dedicata al primo cinema francese, viene rinviata al giorno dopo la fine del festival: si teme ancora la forza sovversiva dell'opera, la sua irriverenza verso i riti e i miti cattolici, la sua sensualità romantica, il suo repertorio di catastrofi nell'indifferenza borghese. E' l'aria dei Cinquanta, censure e paure, rimozioni e ipocrisie: l'anno seguente i film ritirati da Venezia per intervento politico saranno tre, il caso più famoso resterà II seme della violenza di Richard Brooks vietato dall'ambasciatore degli Stati Uniti Clara Boothe Luce perché la società americana non ci fa bella figura. Bo e Leone, vicepresidenti del Senato e della Camera, presiedono nel 1953 la serata conclusiva. Alla Mostra hanno importanza sezioni assennate e didattiche quali una rassegna di cinema etnografico, una di film per ragazzi, una di cortometraggi: i titoli di quest'ultima allineano consociativamente Moltiplicazione dei pesci e Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, Bozzetto in Laguna e Renato Guttuso, pittore popolare, Domenica a Capri e Bora a Trieste. Dai Paesi dell'Europa dell'Est arrivano composte biografie di glorie nazionali (il violinista Slavik detto «il Paganini boemo», il pittore Ales, Chopin e Rimski Korsakov, il romanziere Jerasek, il medico Jansky con i suoi eroici studi sulla trasfusione del sangue) e gli incantevoli esasperanti film con pupazzi di Jiri Trnka. Il critico Mario Gromo è severo: «La Mostra si è chiusa come era cominciata e proseguita, in un mediocre grigiore... Rimane il problema di questi festival pletorici, stancanti, e un solo rimedio appare semplicemente opportuno: alternarli. Un anno a Cannes, un anno a Venezia. Due rassegne del genere, a meno di quattr.0 mesi di distanza una dall'altra, costituiscono ormai un evidente, dispersivo e dispendioso doppione». L'opposizione culturale di sinistra è meno radicale ma più battagliera, le polemiche come al solito si sfrenano, come al solito si esige un nuovo Statuto e una nuova autonomia amministrativa, la Mostra tempestosa del '53 finisce con le dimissioni del direttore Antonio Petrucci, sfiduciato dalle «facili critiche di coloro che ne vorrebbero fare non un ente di cultura cinematografica aperto sul piano internazionale a tutti gli incontri e a tutte le esperienze, ma una specie di cineclub per raffinatissimi intenditori op pure una manifestazione turi stica di mondanità». Quaran t'anni dopo, i termini del con flitto non sono mutati: siamo sempre lì. In un simile clima veneziano, I vitelloni, prodotto da Lorenzo Pegoraro, porta il vento della novità: è il primo film nel quale si esprime la genialità di Fellini nel cristallizzare e narrare le componenti perenni del carattere italiano, sentimentalismo e cinismo, cattolicesimo e leg gerezza, familismo e infedeltà, idealismo e avidità, comicità e tetraggine, loquacità e inerzia. Il film era nato alla svelta, era andato avanti alla disperata tra cambiali e promesse. L'origine del titolo che diventerà un neologismo, ricorda Kezich, è ambigua: sarebbe «il termine del dialetto riminese "vidlòn" con cui la gente che lavora e soprattutto i contadini indicano gli studenti, i giovanotti borghesi delle cittadine balneari adriatiche e in genere gli sfaccendati che vivono tra estati ruggenti e inverni trasognati»; ma Ennio Flaiano ne rivendica l'origine abruzzese, «il termine "vitellone" era usato ai miei tempi per indicare un giov-e di famiglia modesta, magari studente ma o fuori corso o sfaccendato... Credo sia una corruzione di "vudellone", grosso budello, figlio che mangia a ufo, che non produce, un budellone da riempire». Il titolo considerato incomprensibile non piace comunque ai distributori: qualcuno suggerisce «Vagabondi!», con un punto esclamativo di condanna moralistica. Fellini conserva del suo film un'immagine precisa: «I vitelloni di spalle, su quel pontile che si avventura nel mare, un mare grigio, d'inverno, con un cielo basso, denso, nuvoloso... il rumore della risacca, lo stridere dei gabbiani... Anch'io alla fine sono rimasto suggestionato da questa inquadratura del film. E poi dal faccione di Achille Majeroni, che faceva la parte del vecchio attore trombone e omosessuale che concupisce il vitellone intellettuale». Per quella parte il produttore, ansioso d'avere sui manifesti un nome celebre, aveva pensato a Vittorio De Sica, supplicando Fellini di convincerlo. Il regista lo incontrò dopo mezzanotte, nel vagone fermo d'un treno, alla stazione ferroviaria di Roma dove De Sica girava con Jennifer Jones e Montgomery Clift Stazione Termini. Nel buio dello scompartimento, Fellini gli raccontò con eloquenza il personaggio: «De Sica, che forse si era assopito per una frazione di secondo, continuava a sorridere benevolmente. Di colpo parve capire, mi fissò sorpreso, perplesso... Poi, dopo una piccola esitazione, quasi a bassa voce: "Frocio?". Dissi di sì con la testa, un po' imbarazzato. Cadde un silenzio...». Rimini non era Rimini: «Ho girato I vitelloni a Ostia perché è una Rimini inventata: è più Rimini della vera Rimini». A Venezia e dopo Venezia, il film ha molto successo, incassa in sei anni 600 milioni {Stazione Termini ne incassò nello stesso periodo 350), è la prima opera di Fellini a uscire all'estero, segna l'inizio della fortuna cinematografica di Alberto Sordi sino allora giudicato dai produttori scostante, fallimentare e antipatico al pubblico. Prima però le difficoltà erano state aspre e faticose, come è accaduto spesso a Fellini, come continua ad accadere quarant'anni dopo al nostro regista più grande e più caro: «Non voleva distribuirlo nessuno. Andammo in giro a mendicare un noleggio come dei disperati. Ricordo certe proiezioni allucinanti. I presenti, alla fine, mi lanciavano occhiate di traverso, poi stringevano dolenti la mano al produttore Pegoraro, in un'atmosfera da alluvione del Polesine...». Lietta Tornabuoni Quella pellicola «che nessuno voleva», come ha ricordato il Maestro, t fu per lui il lancio internazionale § Alla vigilia della Mostra, echi d'una Italia ormai lontana E Vittorio De Sica scandalizzato rifiutò la parte dell'omosessuale LAa a ' n a n e quelFederico Fellini A destra: una scena dal film «I vitelloni» § Alberti Sordi in versione «macho». Accanto: De Sica e Raf Vallone Nella foto in alto a destra: Audrey Hepburn. Qui sotto: Lilli Palmer Federico Fellini A destra: una scena dal film «I vitelloni»