Un'armata d'idealisti e criminali di Domenico Quirico

Un'armata d'idealisti e criminali Un'armata d'idealisti e criminali La sanguinosa stagione dei soldati russi del Reich LE SSVENUTE DALL'ORIENTE Sull'uniforme Dimitri Shalikashvili portava la doppia runa del terribile esercito privato di Hitler, ma se nel '44 a Berlino avesse incontrato il moderno Dio della guerra tedesco, questi si sarebbe rifiutato di stringere la mano al suo guerriero: perché quel georgiano, pur con la divisa delle SS, restava sempre un disprezzato untermensch, un uomo inferiore. Sei divisioni di Waffen SS, i reparti combattenti dell'Armata nera, formati con reclute di nazionalità dell'Urss, sputavano sangue sui campi di battaglie d'Europa per edificare il Reich millenario. La storia dell'esercito russo di Hitler è la storia di un paradosso tragico e sanguinoso, su cui è calato il silenzio dei vincitori. Nel '41, nei villaggi ucraini e nel Caucaso crocevia delle nazionalità, i soldati del Terzo Reich furono accolti con il pane e il sale, antichi simboli dell'ospitalità contadina. Su quelle terre erano passati gli anni della collettivizzazione forzata, più distruttivi di dieci guerre messe assieme. Per quei contadini gli invasori d'occidente, anche se avevano la temuta divisa tedesca, erano angeli liberatori, perché il diavolo che non si conosce è sempre migliore di quello che si è già provato. Solzenicjn ha descritto questi uomini «sui cui campi erano passati i cingoli degli Anni Venti e Trenta, i cui piedi si erano congelati nella calca davanti agli sportelli per consegnare un pacco in prigione», scorie e detriti di mille naufragi di quella che era diventata il contrario di una rivoluzione. Dimitri Shalikashvili fu tra i tanti che videro i manifesti in dodici lingue diffusi dai tedeschi nell'Europa «liberata»: un soldato nazista sovrastato da una scritta: «Le Waffen SS ti chiamano, combatti il comunismo». Come altri ottocentomila ex sovietici si arruolò. Eppure era un'armata clandestina. Perché Hitler quando gli proposero queste reclute dell'Est, aveva risposto con un ordine brutale come una frustata: «Solo il tedesco può portare armi, non lo slavo, il cosacco, l'ucraino». Non sapeva o fingeva di non sapere che i suoi generali stavano già formando le Ostruppen. Traditori? Idealisti in buona fede? Avvolta in una nebbia di ambiguità l'Armata russa dei Reich comprendeva certo canaglie e prigionieri che cercavano solo una scorciatoia per uscire dall'inferno dei campi di detenzione, ma anche ex comunisti delusi da Stalin e nazionalisti. Il loro capo era un uomo che aveva accettato consapevolmen- te il difficile mestiere di traditore, in nome di un sogno rispettabile; che i tedeschi sognavano di trasformare nel loro De Gaulle, ma che riuscì a non vendere completamente la sua anima. Un uomo di cui si possono scrivere orrori o panegirici, tutti con la stessa attendibilità. Il generale Andrej Vlassov fa catturatoi nelle paludi attorno a Leningrado nel '41, ironia del destino, da alcune SS fiamminghe. Era comparso pochi mesi prima sulla prima pagina della Pravda con la qualifica di eroe. Merito della sua seconda Armata immolata per difendere la città sacra della Rivoluzione. Non portava più sull'uniforme la medaglia dell'ordine di Lenin; figlio di contadini, era già un comunista deluso, choccato dalle purghe nell'Armata Rossa che aveva contribuito a forgiare. Ora che era stato catturato anche per lui valeva la maledizione pronunciata da Stalin: «Non esistono prigionieri di guerra sovietici. Il vero soldato russo combatte fino alla morte. Creare un servizio postale o altri tipi di assistenza per i nostri prigionieri di guerra non ci interessa». Cancellato dai russi, Vlassov «tradì» e lanciò un manifesto politico in cui prometteva l'abolizione delle fattorie collettive, libertà di stampa, di religione, di associazione politica. I tedeschi decisero di usarlo ma in un rapporto segreto scrissero: «Vlassov non sarà mai un mercenario prezzolato e non accetterà mai di comandare mercenari. Vuole solo combattere a fianco della Germania per una Russia socialista e liberare il suo Paese dallo stalinismo». L'Armata di liberazione russa «Roa», in pratica non esistette mai. I tedeschi infatti non si fidavano di quel russo alto, il volto enigmatico nascosto da un paio di occhiali da intellettuale. Le reclute del suo esercito di sogno, cosacchi, ucraini, lettoni, calmucchi e tartari finirono a combattere contro i partigiani. 0 dopo lo choc di Stalingrado, furono trasferiti in Italia o in Normandia, per arginare le diserzioni sempre più numerose. Stava per cominciare l'ultimo capitolo di questa tragica epopea, quello che Orwell ha chiamato «L'orribile affare». La loro sorte fu decisa nell'ottobre del '44, ad un pranzo all'ambasciata inglese di Mosca, «pieno di spirito e di buone maniere», come raccontò il ministro degli Esteri inglese Eden, uno dei commensali a fianco di Stalin. Il dittatore chiese agli inglesi di restituirgli tutti i russi che avevano combattuto a fianco dei tedeschi caduti nelle mani degli Alleati, anime morte destinate a placare la sua sete di vendetta. Il ministro di sua Maestà britannica rispose di sì: la guerra non era ancora finita, i tempi in cui si sarebbero saldati i conti con il padre dei popoli erano lontani. I prigionieri erano 28 mila, catturati soprattutto in Belgio dove si erano battuti con coraggio contro americani ed inglesi. Dimitri Shalikashvili era un uomo fortunato: riuscì a sgusciare dalle mani del destino e a realizzare il suo sogno americano. Per i suoi commilitoni, ci fu solo il gulag e la morte. Stalin non sapeva perdonare. Domenico Quirico