Giudice accusa mi vogliono morto
Droga, leghista in manette Anche a Bari un «palazzo dei veleni». Il pm anticosche nel mirino dei colleghi Giudice accusa: mi vogliono morto Nicola Magrone: «Ce una strategia per screditarmi. E se continuano così la malavita potrà farmi fuori» BARI. «La malavita voleva uccidermi ed ora forse ci riuscirà. Perché i miei colleghi e lo stesso Csm stanno togliendomi quella credibilità che ha sempre sconsigliato ai criminali di ammazzarmi. Prima i boss sapevano che facendomi fuori mi avrebbero trasformato in martire scatenando la reazione delle forze dell'ordine. Ci avrebbero rimesso. Ben altra cosa è uccidere un magistrato chiacchierato. Io oggi mi sento in pericolo». La guerra tra magistrati va avanti da mesi. Il Csm ha aperto un'inchiesta per collusioni tra i clan malavitosi e il Palazzo di Giustizia, un palazzo dei veleni che ricorda quello di Palermo. Ma adesso Nicola Magrone, 53 anni di cui 20 di processi ai clan, sostituto procuratore di Bari nemico numero uno della malavita pugliese, lancia l'allarme e accusa i colleghi di subalternità ai partiti e di esporlo al fuoco dei boss. Accusa soprattutto il Consiglio superiore della magistratura che, su denuncia di due colleghi della procura distrettuale antimafia di Bari, l'ha messo sotto inchiesta, ma per un motivo diverso: una ipotizzata irregolarità nella trascrizione di alcuni nomi nel registro degli indagati. «Mi hanno messo allo stesso livello di magistrati che sono sotto inchiesta per presunti rapporti con la criminalità organizzata. Sa perché? Perché io sono un cane sciolto. Per due volte dal Csm mi sono arrivate telefonate: "Che fai, non ti schieri?". Lì, è noto, tutto è basato sulle correnti. Ma io ne sono fuori. E questo non piace». Su tre giudici c'è l'ombra dei rapporti con i clan: il capo della procura, Michele De Marinis, il presidente della prima sezione della corte d'assise d'appello, Elio Simonetti, il consigliere della corte d'appello Crescenzo Ambrosio. Tutti indicati dal superpentito di Trani Salvatore Annacondia come magistrati disposti ad «addomesticare» i processi. Magrone, il pubblico ministero conosciuto per avere mandato in carcere l'ex amministratore delegato della Fiat Vittorio Ghidella, a maggio aprì un'inchiesta sull'impero finanziario Case di Cura e Riunite, 260 miliardi di fatturato l'anno. Svelò i rapporti tra sanità privata ed i clan cittadini (Capriati, Diomede, Anemolo, Montani) configurando l'ipotesi del voto di scambio per una mezza dozzina di parlamentari pugliesi tra cui i democristiani Vito Lattanzio, Pino Pisicchio, Luigi Farace, Enzo Binetti. Anche loro figuravano negli elenchi delle cliniche dell'imprenditore Francesco Cavallari, zeppi di nomi di dipendenti protetti dagli onorevoli. E nella «contabilità» delle case di cura venivano elencati i picciotti dei clan su libro paga. E' questa l'indagine sulla quale Magrone «inciampa». Essendo i reati quelli di voto di scambio ed associazione a delinquere, l'inchiesta viene avocata dalla procura distrettuale antimafia, rafforza¬ ta recentemente da due sostituti, Alberto Maritati e Corrado Lembo, inviati a Bari dal procuratore nazionale Bruno Siclari. E' proprio Maritati uno dei due magistrati a denunciare le «irregolarità» di Magrone. L'altro è Giuseppe Chieco. «Sottolineano - afferma Magrone che ho trascritto nel registro degli indagati molti cognomi senza i nomi. Secondo la dottrina di Chieco e Maritati questo è un errore giuridico che ha pregiudicato le indagini. Dovrebbero studiare il nuovo codice di procedura penale». Non corre buon sangue con Chieco, magistrato finito nella bufera con il sostituto Carlo Capristo nel corso delle indagini sull'incendio del Teatro Petruzzelli. Il ministro del- la giustizia Conso ha disposto un'indagine dopo un contestato interrogatorio al quale venne sottoposto Pierpaolo Stefanelli, un testimone malato terminale di Aids. In pubblico, durante un dibattito, Magrone lo criticò duramente dicendo: «Questo episodio segna la morte dello stato di diritto». Da allora i rapporti si sono fatti ancora più tesi. Ex dirigente di «Magistratura democratica», figlio di un capostazione, e anch'egli capostazione delle Ferrovie Calabro-Lucane prima di diventare avvocato ed entrare in magistratura, Magrone descrive il palazzo di giustizia di Bari come un porto delle nebbie: «Pressioni politiche? Mai ricevute. Però ad un tratto le inchieste mi venivano tolte. Accadde per il caso dell'Acquedotto Pugliese, tutti prosciolti. E accadde per la costruzione dello stadio dei Mondiali. Indagai sul Comune che rinunciò ad incassare una penale miliardaria da parte del consorzio di costruttori di cui facevano parte i fratelli Matarrese. Ricordo che l'allora sindaco socialista De Lucia scrisse una lettera all'allora procuratore dicendo: "Come mai quest'inchiesta ce l'ha Magrone?" Tutti prosciolti». Conclude Magrone: «Non so di cosa sono accusato. Ascolto in giro che ho ricevuto un avviso di garanzia del Csm. Io non l'ho visto. Lavorando in queste condizioni mi vien voglia di tornare a fare il capostazione». Sandro Tarantino II sostituto procuratore di Bari Nicola Magrone, 53 anni, di cui venti di processi ai clan mafiosi
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