Nella Napoli dei senza ha fatto crack anche il lavoro Comune di Francesco Manacorda

«La madre delle rivolte» Nella Napoli dei senza ha fatto crack anche il lavoro Comune LE CITTA' ASSEDIATE NAPOLI DAL NOSTRO INVIATO I numeri, quelli sì che fanno paura. Un milione di disoccupati in tutta la Campania, trecentocinquantamila solo a Napoli e provincia. Sessantamila cassintegrati, altri trentamila nelle liste di mobilità, ultima fermata prima del capolinea disoccupazione. Ma fa paura anche sentire un sindacalista come Gianfranco Federico, segretario della Camera del Lavoro, che dice: «L'industria campana ormai è in fase terminale». 0 un sociologo con la vocazione del provocatore, Domenico De Masi, che proclama: «Se Napoli si modernizza e diventa più sana la disoccupazione aumenterà. Se non si modernizza la disoccupazione aumenterà lo stesso». Eppure quella bomba-lavoro che preoccupa il ministro Mancino, qui non scoppierà, assicurano in molti. Per due motivi. Primo: per fare una rivolta di piazza ci vuole qualcuno con cui prendersela e ormai a Napoli la classe dirigente è inutile contestarla, è inutile cercarla; semplicemente non c'è più. Sciolto per motivi di ordine pubblico il Consiglio comunale, decimata dagli arresti la Regione, decapitati i vertici di molte aziende municipalizzate. Secondo: se rivolta ci sarà, non dipenderà certo solo dai problemi dell'occupazione. Sulle spalle della gente pesa anche l'acqua che manca o che quando c'è non si può bere, le scuole che stanno per riaprire e che al 65 per cento sono dichiarate inagibili o inadatte dalle Usi, i semafori che si sono spenti poco a poco tre mesi fa e restano ciechi, dato che nessuno ha mai rinnovato il contratto di manutenzione. Insomma «qui non siamo alla povertà nera, ma c'è un misto di rassegnazione e di ribellismo che può accendersi anche per problemi diversi dal lavoro», spiega Mariano D'Antonio, che insegna Economia politica all'Università. E infatti le proteste clamorose, i cassonetti dell'immondizia incendiati, i blocchi stradali, gli assedi al municipio non sono più monopolio dei disoccupati o dei cassintegrati. Ogni mattina davanti a Palazzo San Giacomo, sede del Comune c'è qualcuno che per qualche motivo fronteggia le jeep della polizia. Così, nell'estate in cui l'Italia scopre il terrore della disoccupazione, a Napoli le nuove paure sembrano fare meno effetto, confuse come sono tra i problemi antichi. Eppure anche qui, negli ultimi mesi, le cose sono andate peggiorando a ritmo vertiginoso: 1940 dipendenti in cassa integrazione straordinaria all'Uva, sul loro destino, da dicembre in poi, è buio fitto; 2500 in mobilità negli stabilimenti Alenia che riapriranno i battenti martedì prossimo; le raffinerie della Q8 che danno lavoro a 450 persone e che devono andarsene da Napoli. E poi gli edili, 25 mila in cassa integrazione in tutta la Campania, vittima della scomparsa delle opere pubbliche, ma soprattutto della fine di quel grande formicaio tangentizio che era diventata la ricostruzione post-terremoto. In crisi anche il vero orgoglio del «Made in Napoli», il Comu¬ ne con i suoi 20 mila dipendenti in organico, la maggiore azienda della città. Adesso, dopo che è stato dichiarato il dissesto finanziario, duemila di loro dovranno avviarsi verso le liste di mobilità. «Il voto veniva scambiato con un lavoro, ma più spesso con un vero e proprio sussidio. I politici, insomma, facevano raccolta di consensi attraverso il miraggio della redistribuzione di risorse pubbliche», spiega Mariano D'Antonio. <Adesso i tagli alla spesa pubblica hanno messo fine alla giostra distributiva ed è per questo, più che per le tangenti, che la classe politica è in declino». Esaurito il serbatoio dei finanziamenti, tagliate le tubature della politica clientelare, come farà Napoli a reinventarsi il lavoro? «Prima di tutto cambiando classe dirigente risponde D'Antonio - e poi con le risorse pubbliche. Questo bisogna dirlo chiaramente, non si può immaginare che tutto si risolva da sé, non credo al darwinismo economi- co». Ma come? Si torna all'assistenzialismo, ai finanziamenti a pioggia? «No, assolutamente. Il potere locale non deve essere messo in grado di gestire grosse somme. Deve essere il governo a fare una terapia di mantenimento della città attraverso i fondi pubblici e un terapia di riabilitazione che stimoli gli imprenditori capaci e avvìi una formazione lavorativa seria. Non certo i corsi per sarte e barbieri che fa la Regione». «A Napoli era nata una specia¬ lità, il "marketing sociale" - spiega Gianfranco Federico alla Camera del Lavoro -. La tecnica era questa: si creava un'emergenza, ad esempio quella della spazzatura, si andava allo sfascio e si mandava la gente a Roma a protestare. Poi si aspettavano i finanziamenti». Ma adesso il «marketing sociale» non funziona più: «La crisi dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno e il blocco dei trasferimenti agli Enti locali hanno stretto la città in una morsa». E l'industria? Si è badato molto all'innovazione di processo, che ha espulso gli operai dalle fabbriche, ma non si è fatta innovazione di prodotto. Così adesso le mei ci delle nostre aziende non solo non sono competitive con quelle della concorrenza, ma non hanno nemmeno una domanda». Il rischio, ora - sostiene Federico - non è solo l'inevitabile deindustrializzazione, ma la prospettiva che la crisi delle imprese, quelle piccole e medie che dipendono dalle commesse dei colossi pubblici, ne spinga molte nelle mani della camorra, socio scomodo ma ricco. «E' questo il vero pericolo a cui dovrebbe badare Mancino, non la protesta dei lavoratori». La proposta che piace a tutti, sindacato, imprenditori, anche alla Chiesa, è allora quella di far ripartire proprio la piccola e media impresa locale, con aiuti all'innovazione, rinunciando ai grandi complessi industriali. I cervelli ci sono - giurano -, la ricerca universitaria va a gonfie vele ma non varca le soglie dei laboratori, resta fuori dalle aziende. Per Bruno Terraciano, segretario regionale della Uil, bisogna «aggredire dal basso la crisi», mettendo di nuovo l'industriale in condizione di creare lavoro produttivo e allo stesso tempo bisogna riprendere a costruire infrastruttuie. «La Campania - dice - ha accumulato 3500 miliardi di finanziamenti non spesi. La Regione semplicemente non è in grado di fare progetti». 11 sociologo De Masi propone addirittura di finanziare la miriade di aziende che lavorano in nero, per portarle alla luce, farle uscire dall'orbita della criminalità. E' d'accordo anche monsignor Luigi Pignatiello, portavoce del cardinale Michele Giordano: «Questa non è una città che si sta suicidando, ha una vitalità che oggi è mortificata ed un futuro possibile. Nel documento dei vescovi sul Mezzogiorno si ipotizzano due vie per Napoli. Il rilancio del turismo e lo sviluppo tecnologico». E' un progetto fattibile, o solo un bel sogno, quello di Napoli che salva l'occupazione trasformandosi in capitale artistica e centro ad alta tecnologia? Finora c'è stato un progetto di parco scientifico-tecnologico sponsorizzato da Paolo Cirino Pomicino, con l'incoraggiante nome di «Utopia» ed un po' di metri cubi da edificare nell'area ex Italsider, per la gioia dei costruttori. Poi quel piano è naufragato assieme alle fortune del suo protettore. Ora si punta ad una «rete» di poli tecnologici 1 semafori, intanto, restano spunti. Francesco Manacorda Il ministro Mancino e, a sinistra, un corteo di manifestanti nel centro di Napoli