COSTANTINI

«All'Accademia Navale quante punizioni: dovevo arrampicarmi 30 volte sull'albero maestro» COSTANTINI ato da Vatti a fidare di Salgari. Flavio Costantini aveva tutto per predisporsi a una quieta vita borghese. Figlio di un assicuratore marchigiano con l'hobby della pittura e di una donna di famiglia molto più che romana, papalina, frequentava da ragazzo il liceo Tasso, «la scuola più selettiva di Roma». Erano i primi Anni Quaranta. Con lui studiavano Romano Mussolini e Vittorio Gassman. Viveva nella bambagia. Però leggeva Salgari e si lasciava stregare da quella Malesia cercata sugli atlanti e viaggiata a tavolino. Ne fu travolto. In un'estate traumatizzata da Sandokan e da Yanez, decise di abbandonare il Tasso e si iscrisse all'Istituto Nautico di Ostia. «Era la scuola di ripiego, il rifugio della teppa. Andavamo a Ostia col trenino e eravamo scortati da due carabinieri. I miei compagni erano terribili. Riuscirono a rubare persino le pinze del controllore». Molti anni dopo il pittore Flavio Costantini avrebbe dedicato a Salgari uno dei suoi celebri ritratti, un mezzobusto in bianco e nero decorato dalla macchia sgargiante di una medaglia.. Che cos'era? Gratitudine? Vendetta? Omaggio ironico al responsabile di un'avventura interminabile che, nata sul mare, doveva continuare nel labirintico, misterioso percorso della mente, con un mestiere d'artista affrontato come un azzardo, nell'annoiata attesa di un imbarco? Salgari è stato una delle tante ossessioni di Costantini. E con lui la letteratura: Kafka, Stevenson, Conrad. E' difficile muoversi nella bella casa arrampicata sulle colline di Rapallo senza il rischio di scontrarsi con qualche scaffale stracarico di vecchie riviste o di volumoni rilegati in maroc chino. Hai l'impressione che siano stati i libri a disegnare le stanze, che i libri abbiano crea to percorsi obbligati, cammina menti di trincea. Se qualche spazio è rimasto miracolosa mente vuoto, eccolo riempito con un modellino di nave, una gigantografia di transatlantico con i colori che virano sul verde, un gagliardetto della Marina. Una bandiera americana è distesa su qualcosa che somi glia a una fotocopiatrice. Al ci nema l'abbiamo vista ricoprire in questo stesso modo la bara di un caduto o di un Presidente. Viene da pensare alla tana di Kafka. Costantini abbandona di rado questa casa, di rado scende a Rapallo. «Sono un solitario che ha paura della solitudine», dice. Vive di testa. E' sempre vis suto di testa. E' diventato capi tano di lungo corso senza avere mai imparato a nuotare, anzi provando un acuto ribrezzo per l'acqua. «Sono idrofobo. Devo stare attento quando bevo: mi strozzo al primo sorso. Se entro in mare mi sento soffocare». Ha sopportato Istituto Nautico, Accademia navale, imbarchi mercantili e civili, con la sen sazione di trovarsi quasi sempre altrove, in altre imprese e in altri scenari. «I primi due anni dell'Istituto sono stati un inferno. Poi so no diventato mascalzone come gli altri. Avevo un compagno fantastico, il Patacca. Nel '44 veniva a scuola vestito da sol dato inglese e con quella divisa andava a rubare la benzina nei depositi di Sua Maestà, Fu un amico. Ricordo che, fra i nostri esercizi, c'era il salto della coffa: dovevamo arrampicarci su un albero, raggiungere la coffa e scendere dall'altra parte. Ma io soffrivo di vertigini. Una volta Patacca passò tutta la mattina cercando a tutti i costi di farmela saltare. E' morto due anni fa. Avevamo organizzato un raduno di ex allievi. Lui disse: non mi sento bene, non vengo. E' morto mentre eravamo a tavola». Per Costantini la vita diventa sopportabile soltanto nel ricordo. Non a caso riesce a parlare degli anni in Accademia con la brillantezza di un battutista. «Sono uscito dal 28° corso, il primo che si teneva dopo la guerra. Eravamo in 500 all'arruolamento, ne siamo usciti in 62, io ero il 62°. Ma corsi il rischio di non essere promosso». Per inettitudine? «No, perché mi avevano rubato la rivoltella di ordinanza. L'avevano presa alcuni colleghi baresi e l'avevano buttata in mare». Perché? «Mah, forse ero antipatico, mi davo delle arie. Io ho sempre avuto contatti difficili con la gente, anche da bambino. Ho detestato la gente e l'esercizio fisico. Sono diventato antifascista perché odiavo la ginnastica. E figuriamoci come potevo stare in Accademia. Tutte le mattine eravamo costretti a fare le bracciate». Consistono nell'arrampicarsi a forza di braccia su cavi d'acciaio inclinati, rivestiti di corda e alti due piani. «Io non riuscivo a fare neanche un centimetro. In più soffrivo di vertigini. Il comandante del corso, Mainini, diceva: se soffre di vertigini non può diventare ufficiale. La mia inettitudine mi procurò una quantità inverosimile di punizioni. Ma in Accademia le punizioni consistevano nell'arrampicarsi in cima all'albero maestro e scendere dalla parte opposta per almeno dieci volte. Invece di dieci, a me ne toccavano 20 o 30. Riuscii a barattare le arrampicate con giorni di prigione. Passai gli anni dell'Accademia in prigione, non uscivo mai. Una volta mi portarono dentro mentre passava l'ammiraglio Bigliardi, il comandante dell'Accademia. Mi chiama, mi chiede che cosa avessi combinato. Quando seppe il motivo della punizione andò su tutte le furie, scoppiò uno scandalo. Una cosa del ge- nere per lui era intollerabile. Mi fece legare come un salame e ordinò che mi tirassero su a braccia. Fu così che riuscii a salire. Evidentemente volevano farmi diventare marinaio a tutti i costi». Il primo imbarco dell'allievo ufficiale Costantini avvenne su una petroliera dell'Agip. Si chiamava «Rapallo», quando si dice il caso. «La vita di bordo per me fu uno choc. La prima volta che attraversammo l'Atlantico, ci mettemmo quanto Colombo. Era sempre tempesta. Facevamo 10 miglia il giorno, prendendo il mare a gavone, cioè a traverso. La petroliera somigliava a un sottomarino. Corridoi e cabine erano invasi dall'acqua. Durante la guerra il Rapallo era stato usato dagli americani e, per dormi¬ re all'asciutto, utilizzavo una loro branda che appendevo al soffitto. Ma questo mi piaceva. Non mi piaceva l'ambiente. Il marinaio italiano non scende a terra, non beve, non va a donne. Altro che favole. Il marinaio italiano non spende e ha paura di portare a casa malattie. Quella volta mi accorsi di non avere proprio l'istinto del marinaio. Però il mare mi piaceva. Quando potevo, stavo fuori, in contemplazione. Era come guardare un film». Che strano marinaio è stato Costantini. Fu imbarcato sul Rapallo come soprannumero, cioè come uno di cui non si aveva bisogno, soltanto perché raccomandato dal presidente dell'Agip. La cosa creò qualche equivoco. Tutti, a bordo, pensavano che fosse una spia dell'armatore e perciò lo trattavano con riguardo. In aitre parole non gli facevano fare niente. Costantini doveva sottoporsi a una dieta in bianco. Fu accontentato. Sembrava un passeggero. I colleghi gli dicevano: ci paghi il tuo privilegio con un fiasco di vino ai giorno. E il vino a bordo costava. «Prima di sbarcare, chiesi il conto al cambusiere. Mi accorsi che era stranamente basso. Avevano addebitato il vino al primo ufficiale. Insomma, ero il padrone della nave, ma non ho imparato a fare il marinaio». Un po' di suspense arrivò quando la nave fu affittata dai russi: «Davano il diploma di stakanovista a chi lavorava per loro», ricorda Costantini. «Erano gli Anni 50, piena guerra fredda. Noi caricavamo il petrolio a Costanza, in Romania, e lo scaricavamo a Danzica, facendo il periplo dell'Europa: quaranta giorni a bordo senza sbarcare. Una volta sul Rapallo salì un soprannumero che era evidentissimamente una spia: vestiva come un damerino, dormiva nella cabina dell'armatore, possedeva dollari e sterline. Teneva nascosta in un calzino una microcamera. Ai Dardanelli aveva fotografato alcune navi sovietiche. Fu arrestato, perquisito. Un soldato trovò la macchina, ma per fortuna l'aprì, cancellando le foto. Il primo ufficiale riuscì a nascondere i dollari e le sterline. In questo modo evitammo un sacco di guai. Non si poteva scherzare. A Costanza caricavamo sorvegliati da soldati col mitra spianato. Era tremendo. Una volta, arrivando a Vallona, in Romania, fummo accolti a cannonate, perché nessuno era stato avvertito». Poi ci fu l'imbarco su una nave passeggeri, un transatlantico svedese del 1900, con i saloni e le decorazioni di legno: una meraviglia che dal Mediterraneo arrivava a New York via Halifax. «Era un bel giro, ma non apprezzavo. Credevo di essere un cameriere. Non fosse stato per le nascite e le morti, sembrava di viaggiare in un albergo di lusso. Una volta, in mezzo all'Atlantico, vedemmo una nave che non governava. Ci avvicinammo, era svedese. Salimmo a bordo e vedemmo che erano tutti sbronzi, dal capitano al mozzo. Avevano messo i palloni di non governo e andavano alla deriva per smaltire la sbronza». Sembrerebbe incredibile, ma tutto questo è nato da Salgari. «Sono sempre vissuto letterariamente. Salgari era tutto per me, più di Verne, che ho letto solo di recente. Ho amato moltissimo Stevenson, ho apprezzato l'utopismo anarchico di Wells. Conrad è stato una pas¬ sione. Ho illustrato Linea d'ombra come fosse la mia autobiografia: il protagonista lascia un imbarco buonissimo per andare verso l'ignoto». L'ignoto era la pittura: viaggio tormentatissimo, nato per caso e per azzardo, cominciato disegnando stoffe e proseguito illustrando i grandi miti e le ossessioni di Costantini: Kafka, la tauromachia, il ciclo degli anarchici nato dalla delusione di un viaggio in Russia con Gentilini, Vespignani, Vedova. «Ero un cripto-comunista, ma il socialismo reale mi procurò una crisi di nervi: sbarellavo». Seguirono i ritratti degli scrittori amati e odiati, il naufragio del Titanio: una ventina di tempere che, tra architetture metalliche, meccanismi bloccati e scomposti, carpenteria floreale, fissavano con glacialità l'attimo allegro del disastro. Da qualche anno lavora al ciclo La fine dei Romanov. Dice: «Ho cominciato a pensare agli zar quando terminai il ciclo degli anarchici, quando mi accorsi che non funzionava neanche l'anarchia e che il ruolo vittima-carnefice andava invertito. Ormai sono contrario a ogni rivoluzione. Non si risolve niente. Il popolo scatenato è peggio dei despoti, la folla è terribile. Penso a piazzale Loreto... Non si sputa su un cadavere, è roba da barbari balcanici. E' cominciata male la nuova Italia, e sta terminando peggio». Costantini dice di pensarla come Sciascia, un uomo che gli è caro. «Fu lui a organizzare la mia prima mostra a Roma. Con lui ebbi un rapporto importante. Lo conobbi anni fa, a Rapallo. Arrivò con Ferdinando Scianna per comprarmi un quadro. Parlò pochissimo. Quando andò via disse a Scianna: meno male che Costantini ha smesso di fare gli anarchici. Lo vidi per l'ultima volta la settimana prima che morisse. Fu l'unica volta che mi abbracciò». Continua: «Per me è stata una fortuna conoscerlo. Sono stato fortunato sempre. Ho fatto il primo quadro e sono diventato subito famoso. Ma sono infelicissimo. Non so perché. Mi sento un marziano. Vengo da un mondo diverso dagli altri. Non è né migliore né peggiore. E' il mio». Osvaldo Guerrieri // primo imbarco, su una petroliera dell'Agip: «Attraversammo l'Atlantico in tempesta, per dormire all'asciutto appendevo la branda al soffitto» «All'Accademia Navale quante punizioni: dovevo arrampicarmi 30 volte sull'albero maestro» i|II A fianco Flavio Costantini oggi, sullo sfondo i| di una bandiera americana. Sopra Sandokan: I al creatore dell'intrepido pirata della Malesia, I Emilio Salgari, l'artista ha dedicato un celebre ritratto. In basso Leonardo Sciascia Vittorio Gassman. Sopra Costantini in tenuta da capitano di lungo corso. A lato uno dei suoi dipinti del ciclo «La fine dei Romanov»