polemica Ultimi interventi sul «nuovo» e gli «scrittori avari»

polemica Ultimi interventi sul «nuovo» e gli «scrittori avari» polemica Ultimi interventi sul «nuovo» e gli «scrittori avari» Oddone Camerana ALLA NOSTRA NARRATIVA E' MANCATA LA GUERRA ALLO sfondo dei grandi romanzi sento alzarsi, quando c'era, un rombo di cannoni o un rumore di eserciti in movimento, lotta. Nei grandi secoli di ogni letteratura sia essa americana, inglese, francese, russa vedo sempre da qualche parte un fumo di guerra, uno sventolare di bandiere, un lampeggiare di armi. E subito dopo retrovie, campi di battaglia, soldataglia, divise, truppa, guarnigioni sperdute, fortificazioni. E poi città, paesi che parlano di guerra, la temono, la soffrono, la subiscono. E ancora: spie, intrighi, prigioni, gradi, divise, armi, servizi segreti, la grande politica. Alti comandi. La Marina... le navi, le rotte, la disciplina, la vita di bordo. Billy Budd condannato ingiustamente dal suo capitano, ma che prima di essere impiccato grida di gioia in suo onore. Dico tutto questo perché la guerra e la vita militare sono state il teatro più vivo della grande narrativa. E questo è successo perché la vita militare è stata il terreno per eccellenza dell'azione. La grande narrativa si è appropriata della vita militare (e dintorni) perché in essa è organizzata al suo meglio l'azione - ciò per cui siamo nati - e il modo in cui questa si esprime: il coraggio, la paura, la morte, il senso della vita, la responsabilità, la potenza di una società, il valore di una cultura, il significato della sovranità. L'autore del De hello gallico o di Guerra e pace o di Tsushirna o di Voyage au bout de la nuit, se non era un soldato, un ufficiale, un corrispondente di guerra era però un attento osservatore della vita che vi aveva visto direttamente o narrata da altri e vi aveva partecipato con il suo senso della morte, del sangue e della sovranità. L'Italia e la sua storia, che non presen tano certo una carriera esem piare in materia di guerra, di responsabilità, di sovranità e pertanto di azione, salvo parentesi come la prima guerra mondiale e in parte la guerra resistenzia Alessandro Baricco le, sono state pertanto tagliate fuori dalle grandi occasioni narrative che ne discendono, rifacendosi per lo più con la letteratura di corte, dei professori, dei letterati, all'ombra dei regimi più o meno dichiarati. Devo dire che l'avvento satanico della guerra ipertecnologica segna anche la fine della narrativa nella sua ombra. E questo vale per tutti. Su quale campo, d'azione si sposterà allora il romanzo? La scelta mi sembra ristretta all'azione; nazionale o multinazionale, di conquista della quota di mercato o al suo sfinimento rappresentato dalla polvere dell'Apocalisse. dd pOddone Camerana Massimo Romano CARO BARICCO ANCHE FLAUBERT ERA «PITOCCO» SOLPE , ILTliriTstdella racon gli sme Pierricco cr«un geszionale»partenzgli equi teraria il nuovo e il vecchio si mescolano in modi assai più complessi di quanto lui creda, e nel gioco tra originalità e tradizione i figli che si ribellano ai padri finiscono per assomigliare ai nonni. Comunque è certo che noi contemporanei non possiamo avere la percezione del nuovo, una dote riservata ai posteri. Se non fosse così, potremmo già stilare le classifiche dei capolavori per gli Anni Ottanta, Novanta. Quanto al resto, si può ricordare che non tutte le recensioni «sembrano dei protocolli», non tutti gli scrittori italiani sono «pitocchi», cioè avari di storie, anche se un criterio quantitativo sul potenziale fantastico o romanzesco di un libro non ci dice nulla sulla sua qualità, tanto è vero che ci sono capolavori quasi privi di trama e che Flaubert sognava di scrivere un libro sul niente, che si reggesse solo per forza di stile. Massimo Romano LTRE che somigliarsi, il libro di Alessandro Baricco e il suo articolo su Tuttolibri pongono lo stesso problema: quello della raccontabilità dell'oggi con gli strumenti dell'oggi. Come Pier Vittorio Tondelli, Baricco crede che la lettura sia «un gesto, innanzitutto, emozionale». E' un buon punto di partenza, che credo travalichi gli equivoci sul nuovo e sul vecchio nella nostra letteratura. E', infatti, più importante decidere d'aspettare semplicemente un fantomatico nuovo, o non è forse più decisivo proprio questo sentimento dell'attesa nei confronti di ciò che può accadere? In questo senso, non solo gli scrittori possono essere considerati avari, ma anche i lettori: noi tutti, insomma. Più che il nuovo c'è al posto di quello che abbiamo fino a qui chiamato letteratura, qualcosa d'indistinto, tenuto in vita da figure ugualmente indistinte e ambigue e polisemiche, che non necessariamente debbono ancora chiamarsi scrittori, critici, lettori, perché la loro coabitazione in una stessa persona s'è fatta sempre più frequente e fitta. E Baricco è una di queste figure e forse si capirebbe meglio questo aspet to se il suo libro venisse accostato, solo per fare un esempio, a quello di Eraldo Affinati su l'uomo di Tolstoj {Veglia d'armi, Marietti): solo un saggio o qualcosa d'altro, che pure ha a che fare con la narrazione e col tentativo di uscire dalla letteratura con i suoi stessi stru menti, intrawedendo il Nove cento attraverso la specola del grande russo? I libri di Baricco e di Affinati, all'apparenza agli antipodi, se messi a confronto, indicano una sensibilità comu ne, nella quale vecchio e nuovo sono fortemente intrecciati c'è il tentativo di fuoriuscire dai generi e dagli steccati, senza mettere da parte, come altri autori coetanei hanno fatto, la critica. Silvio Perrella OLTRE I GENERI PER FONDERE SAGGIO INVENZIONE Melo Freni I «TROMBONI» SOMMERGONO CRITICA È IRONIA RENDO spunto, per una riflessione sull'avarizia del romanzo, dagli interventi di Elkann e di Silvana Grasso (Tuttolibri 866), che dimostrano doti da sottolineare: la semplicità dell'uno e l'ironia dell'altra; doti ormai assenti nelle partiture ufficiali delle «orchestre» letterarie, tra le cui file rare sono diventate le classi dei violini, dei clarinetti, sommersi gli oboe, per lo strepi to delle grancasse e dei trombo ni. Per quello che si legge, dalla responsabilità dei «grandi» romanzi, che vanno ad infoltire lo spreco del tempo, del denaro e dello spazio, non può essere di sgiunta quella di una certa oriti ca, capace solo di esprimersi per consonanze elettive, narcisistiche, di vuota alterigia, incapace di ima nuova, seria, proposta. Scrive Elkann: gli scrittori di romanzi ci sono, anche se non vincono premi, se sono legati a tirature ridotte; aggiungo: che non infoltiscono alcuno spreco, per quella che è la risposta dei lettori, delle sempre ridotte ma costanti ristampe, dell'interesse di moltissime università straniere, di tesi di laurea in Italia, Pae se non del tutto distratto e soc combente, come l'ufficialità del l'informazione vorrebbe far ere dere. Ci sarebbe dunque da chia rire che l'attenzione dal romanzo è distratta dalla proposta dei non romanzi, tema, questo, che meriterebbe un dibattito serio e non la «diatiiba» di cui parla la Gras so, da quelle «lande lardicate di gramigna» che sono anche le mie, dove il significato delle cose non sfugge e neppure quello delle parole; dove non sfugge che krìsis, oltre ad indicare mutamento, vuol dire anche scelta, giudizio, e che alla (medesima) radice di krìnein - distinguere, giudicare - risalgono «critica» e «criterio», consistendo la prima in una «indagine», il secondo in una regola per giudicare secondo un principio di coerenza. Che cosa è rimasto di ciò alle «grandi» fonti del giudizio dell'attuale «grande» romanzo, incoraggiato all'avarizia? Silvio Perrella Melo Freni

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