Il libertino del cavalletto

Il libertino del cavalletto A Rimini i trasgressivi dipinti barocchi di Guido Cagnacci Il libertino del cavalletto Scene erotiche fra sacro e profano i RIMINI OME Antonio Tanzio d'Errico da Alagna Valsesia, come Giovanni Serodine da Ascona. Anche Guido Cagnacci da Santarcangelo di Romagna (1601-1663), figlio di conciapelli e banditore del Comune in grado di mantenerlo agli studi d'arte a Bologna e nei viaggi di studio a Roma assieme al Guercino, è uno di quei formidabili provinciali che riescono a essere inquieti, inquietanti e trasgressivi in un secolo già pieno di per sé di inquietudini e di grande libertà pittorica. Nel museo della città, fino al 28 novembre, ne illustra l'opera la mostra «Cagnacci» organizzata dal Meeting per l'amicizia fra i popoli e dal Comune di Rimini: 41 dipinti, tutta la produzione maggiore di arte sacra e l'essenziale di quella profana, sbalorditiva nella sua morbidezza, dolcezza, naturalezza sadicoerotica (catalogo Electa a cura di Daniele Benati e Marco Bona Castellotti). In spirito e in pittura, i confini fra i due ambiti tematici sono piuttosto labili in lui, sempre oscillante nel profondo dell'emozione e della psiche fra la naturalità caravaggesca, la cadenza classica bolognese riformata dai Carracci fino al Reni e la dolce eredità emiliana delle Grazie del Correggio. Nella tranquilla sequenza delle sale e del corridoio al primo piano del museo, fra luci rispettose dell'integrità dei dipinti ma nel contempo adatte a rivelare tutta la sottigliezza vibrante degli impasti modellatori di luce e colore, ancora una volta le due enormi tele con le Glorie di San Mercuriale e di San Valeriano, innalzate nel 1642-'44 sul tamburo della cupola della cappella della Madonna del Fuoco nel duomo di Forlì (oggi nella pinacotèca), rinnovano lo stupore e l'entusiasmo; gli stessi che già avevano suscitato nella memorabile occasione di una delle grandi mostre bolognesi di Gnudi, quella del 1959 sugli emiliani del '600. Nel secolo della trionfante retorica cattolica delle cupole barocche affrescate non trovo nulla di più eterodosso e trasgressivo anche sul piano del linguaggio: nessuna sublimazione dorata di cieli divini, ma una gran festa giovanile (solo anziano è il San Mercuriale calpestante un drago in forma di pesce spada, dall'incredibile scorcio in un cangiante arcobaleno di colori) sotto la lamina splendente di un cielo marino in «azzurro et oltramare» fornito per contratto dai fabbricieri. Festa e gioco: musica di arpa, violino e mandorla per San Mercuriale, suonata da angeli che sarebbero a loro agio anche nei cieli dell'arte sacra purista ottocentesca; finta musica bellicosa di tromba e tamburo per San Valeriano - con armature per gioco -, suonata da efebi che nascono dal Correggio, ma non da quello delle cupole sacre, quello della Badessa e delle «favole» pagane. E inoltre la proposta degli scorci di un Veronese che rinascerà come modello solo nel '700. Giustamente, in catalogo, Daniele Benati e Anna Colombi Ferretti sottolineano il valore di snodo di questi due capolavori del pittore quarantunenne, che in quel torno di tempo, dopo capolavori giovanili in cui l'etero¬ dossia assume le forme e i colori dell'interpretazione fra «spagnola» e arcaizzante del credo caravaggesco, intraprende con decisione la strada antibarocca della luminosa ambiguità fra sacro e profano, fra estasi e morti profumate di Lucrezia e Cleopatra, della dolcezza carnale e setosa fra argentea e dorata, che ha fatto pronunciare il nome alto di Vermeer. Poco prima dei teloni di Forlì, sono nati, e fanno un poco rabbrividire in mostra, ma con ammirazione, la Giovane martire morta del museo di Montpellier, oggetto erotico di altissima classe - nel '700 era del Reggente d'Orléans, modello di libertinismo nella più alta accezione -, intatto in mezzo all'evidenza illusionistica degli strumenti del martirio; e l'ancora più inquietante Maddalena penitente delle Benedettine di Urbania, prodigio di ambiguità nella sua sinfonia di grigi e di bruni, «estatica di un'estasi fisica, d'evidenza quasi zoliana», come scriveva Arcangeli nel 1959. «Con le incrociate mani reprime il palpitante petto, che si sente scoppiare: ma non per anche dalle penitenze consunta, ed ancora bella» la vide con occhio sin troppo laico il suo scopritore nel 1879, l'erudito locale Raffaelli. Prima, la lezione naturalistica come eco dei due viaggi a Roma nei primi anni 1620 aveva assunto cadenze di devozionalità arcaizzante nei tre santoni, Antonio Abate, Pantaleone e Giu¬ liano Ospitaliere dello stesso Museo che ospita la mostra, con una evidenza di lume pittorico che oscilla fra i due estremi del Tanzio da Varallo e di Zurbaran, ovvero un'antologia di eterodossi; con i reciproci attributi, fra cui il maiale, il fuoco, un cinto erniario, lo spadone insanguinato con cui Giuliano aveva ucciso i genitori, schierati in bella fila come ex voto. Lo stesso naturalismo culmina intorno al 1630 nella grande macchina devozionale della pala carmelitana di S. Giovanni Battista a Rimini, che rilancia vent'anni dopo, con violenta bellezza di vita, il messaggio caravaggesco delle Sette opere di misericordia: chissà se Arcangeli, quando descriveva i due angeli a colloquio «sotto due chiome rapinose - il casco bronzo-rame e il casco d'oro», pensava a Simone Signoret? All'estremo opposto, nella fase veneziana e poi viennese imperiale fino alla morte nel 1663, si pone la lattescente dolcezza di amore-morte delle sue Cleopatre ragazzine, abbandonate nelle poltrone di cuoio rosso e borchie d'oro, grande attrezzeria melodrammatica nei golfi d'ombra bruna o verdastra: ma è solo apparenza, solo e semplicemente abbandono dell'ambiguità per un trionfante libertinismo. Lo stesso atteggiamento, la stessa tipologia femminile solo un poco più invecchiata e macerata, la stessa evidenza tattile delle materie ritroviamo nella estrema Mater dolorosa di Monaco di Baviera: intorno a lei, gli strumenti della Passione, compresi tre dadi ciascuno con la sua ombricola che potrebbero essere stati dipinti da un Baschenis; nel cuore, anziché le sette spade, sette fuselli da tombolo. Marco Rosei Cleopatre morenti e Maddalene pentite ricordano le dolcezze carnali di Vermeer e la naturalità infuocata di Caravaggio Nella foto grande, l'abbandono melodrammatico della «Morte di Cleopatra», conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna, e nella foto piccola l'inquietante «Maddalena penitente» delle Benedettine di Urbania, prodigio di ambiguità