FOSSATI i piccoli cuori degreti di Genova

FOSSATI il luogo. Un cantautore e la sua città: sorda, umiliata, ma se la scopri te ne innamori FOSSATI i piccoli cuori segreti di Genova GENOVA DAL NOSTRO INVIATO Dietro una curva improvvisamente il mare, e Genova con i suoi svincoli micidiali e i serpenti di case che si mangiano le colline; e in questo giorno appiccicoso di caucciù guardi Genova e ripensi a una canzone, «chi guarda Genova sappia che Genova si vede solo dal mare». E avresti voglia di prendere una barca e andarti a vedere Genova dal mare, che forse metterebbe meno tristezza. Ivano Fossati quando ha scritto Chi guarda Genova ce l'aveva negli occhi, la sua città massacrata. E ne parla come di una bella donna che ti fa soffrire, eppure te la porti nel sangue e nei nervi e non riesci a starle lontano: «La amo più di qualsiasi posto al mondo, vivo qua, mi sono spostato di trenta chilometri perché non sopportavo di non trovare il parcheggio o di fare la fila al semaforo, ma non sono andato a stare da un'altra parte. Ho bisogno di sentir parlare con questo accento». Il carattere dei liguri Sorride, quasi a scusarsi d'essere tanto terragno, attaccato ai posti, che gli pare un tradimento l'aver lasciato la città vecchia dell'infanzia e essere andato a vivere, con il figlio, su a Leivi, una manciata di chilometri da Chiavari e dal mare, eppure già montagna, già Appennino. Perché la Liguria non è posto di mare, è montagna verde e cattiva. «E poi dicono che siamo chiusi, noi liguri, che siamo avari. E noi la prendiamo male e rispondiamo che sono luoghi comuni; invece è tutto vero. Se pensi a quel che significava campare quassù, non ti stupisci se siamo chiusi, e avari. O parsimoniosi, fai tu». E racconta, Fossati, di quei quattro ulivi attorno a casa, che coltiva perché è bello averli, è bello tornare dal mondo - le tournée, i dischi, l'esistenza randagia del cantautore di successo - e ritrovare la ca sa e gli ulivi e la cantilena del dialetto. «La fatica che costano, quei quattro alberi... A lavorare su certe scarpate, allora lo capisci, il carattere dei liguri». Si può capire anche l'egoi smo? Genova infettata dalla cu pa ira d'estate, la guerriglia nei carrugi, la rivolta contro gli «altri»: cittadini extracomunitari, li chiamano i giornali, ma per la gente sono i «negri», e a Genova li hanno braccati per le stradine del vecchio centro, e picchiati. I giornali hanno scritto di una città malata d'egoismo. «E' difficile giudicare, chi non è di qui di solito immagina una Genova ospitale, abituata a convivere con chi viene da fuori, con i naviganti. Ed è vero; o era vero una volta, non so. Io, come tutti quelli della mia generazione, sono cresciuto a contatto con i naviganti. Capisci? Vent'anni fa a Brescia, o a Bergamo, non ti capitava di vedere un nero per la strada, era una cosa insolita; e invece, con il porto è normale, incontri facce, lingue, idee diverse, e ti abitui alla diversità. Andavi nei ristoranti di Sottoripa, e c'erano i naviganti, venivano dall'Africa, dall'America Latina; e non ho mai sentito una parola contro di loro, davvero mai. Così, quello che è capitato sembra più assurdo perché è capitato a Genova». Sarà che i tempi sono cambiati, e vent'anni fa Genova era ricca e ancora superba e il porto tirava e c'erano le industrie e il commercio, mentre oggi... «Le cose sono diverse, è vero. Com'è anche vero che esistono queste piccole bande di persone che vengono dal Nord Africa e cercano di conquistarsi un loro potere, nei quartieri, e la tensione sale. E i vecchi genovesi si sentono presi in giro: da decenni sentono parlare di rilancio del centro storico, li hanno spinti a tornarci... Conosco persone che ci hanno creduto. Invece di comprar casa altrove sono andati a abitare nei carrugi; perché se lo facciamo noi, si sono detti, lo faranno altri, diamo l'esempio per il bene della città. Oggi li senti, i discorsi: c'è scoramento, delusione. Ma come, dicono, gli amministratori prima ci raccontano che il centro storico deve rinascere, vivere, e poi permettono che qui la vita sia così... Hanno ragione tutti, il fatto è che si scontano errori vecchissimi». E pensa, Fossati, agli anni sprecati, gettati al vento. «Servivano idee, e scelte intelligenti. Invece...». Eppure la città aveva voglie e talenti. Imprenditoriali, e culturali. E forse la cultura, una certa cultura, è tutto quel che resta. Fossati è un musicista, sono musicisti Paoli e De André. De André se n'è andato, Paoli è rimasto e tenta di fare cultura, partendo da Arenzano dov'è assessore e organizza convegni sui gatti. Ma è possibile che rimanga soltanto la musica, di quella Genova? «Ma no, non credo. La città stessa: è umiliata dal cemento, d'accordo, ma ha piccoli cuori segreti, e se un genovese te li rivela magari te ne innamori. Però quello che vedi dalla porta Ovest, dall'autostrada, è lì, non è un bruttò sogno. Dal mare è diverso: sul mare gli uomini non hanno potuto far danni, se stai due miglia fuori la costa è uno spettacolo davvero grande, la scenografia è salva. Ma dietro è spaventoso». Nascono così, le canzoni: uno va sul mare, guarda Genova e la riscopre bella. E scrive una canzone. Forse è questa, la famosa ispirazione dei poeti. «Nel nostro fare musica - parlo di me, e di altri come me - credo che sia importante essere nati qui, cresciuti qui. E c'entra naturalmente l'intuizione di De André. Fabrizio è stato il primo a dire abbiamo talento, vabbé può essere; abbiamo tecnica, vabbé può essere. Allora smettiamola di scrivere canzoni per le classifiche e vediamo di fare qualcosa di meglio. Si tratta di interpretare la propria terra. Però sono cose che capisci a una certa età. Quand'ero ragazzo volevo sol¬ tanto fare il jazz, suonare il flauto. E avevo scelto il flauto perché costava meno del sassofono. Va a finire che incontro quegli sciamannati, i Delirium, e sfondiamo. Tutto per caso. Volevamo divertirci, non facevamo calcoli; se dicessi che a vent'anni avevamo un progetto preciso, direi una grande bugia. Il progetto era fare quel mestiere lì, che non sapevamo neanche fosse un mestiere: ci sentivamo fortunati, ci sentivamo belli, magari geniali. Pensa, un gruppo di ragazzi che all'improvviso, da un giorno all'altro, sentono le loro canzoni alla radio, le interviste. Ragazzini che si ritrovano il mondo in mano, e vengono dalla provincia. Genova allora era provincia. E lo è ancora: mi spiace dirlo, ma lo è. Profondamente. Non somiglia, nei modi della gente, nei riti del lavoro, a Milano, con tutti i difetti di Milano. Vorrebbe tanto: però è sempre una Pavia grossa, una grossa Tortona». Eppure Genova aveva cervel¬ li, e cuori. Qualcuno ha sbagliato, è chiaro. «Se c'è una caratteristica, non dico dei genovesi, ma degli amministratori di Genova, è la sordità. Non so se sia vera ignoranza oppure sordità: ma so per esempio che è difficile far passare le cose della cultura, cultura in senso lato, popolare. E' una difficoltà che dura da anni, ma anni e anni...». Così, per sordità o ignoranza, ha vinto ma vinceva sempre, non soltanto qui - il partito dei sottopassaggi, delle «grandi opere». Brutte, o mutili. O brutte e inutili. «E adesso finiscono in galera, per fortuna... dico "per fortuna", pur sapendo che è una meschina soddisfazione piccolo borghese. Però due sere fa sono capitato nel sottopassaggio famoso, quello terminato per le Colombiane: è già fatiscente, sembra costruito negli Anni Sessanta. Ecco, Genova paga la sordità, i progetti sballati che la imbruttiscono e la intristiscono». Può darsi che non sia neppure questione di Genova, o Milano, o Campobasso: L'intero Paese pare brutto, ingrugnito e torvo. «Mi ricordo quando sono scoppiate le bombe, a Milano e a Roma: ero da Fabrizio De André in Sardegna, e siamo rimasti svegli la notte intera a parlare della depressione che ti prende, la depressione di essere sempre allo stesso punto. Poi ti raccontano che le bombe degli Anni Settanta erano contro il cambiamento, e queste invece sono colpi di coda di un sistema in agonia: massi, è un'interpretazione, e ti consente ancora di vedere una logica, una causa e un effetto. Ma non sempre causa e effetto hanno una logica, in Italia». La logica. Accendi la tivù, e te ne piovono addosso decine, di logiche. «Cerco di fare una media, come tutti. Sento i notiziari, mi sforzo di capire. Poi, quando cominciano gli spot, tolgo l'audio. Mi piace starmene seduto sul divano di casa, a suonare o a occuparmi di cose che m'interessano, e vedere quelle figurine senza voce che si agitano». Poveri cantautori, costretti dal ruolo a disprezzare la televisione e intanto a temerla, a servirsene: per vendere, per esserci. «Esserci? Non ci credo. La televisione ti trasforma in un burattino, finisci a fare l'ospite in playback. Io l'ho fatto, oh, e non mi vergogno. Nell'estate dell'82 sono arrivato a ventitré apparizioni televisive. Tutte orribili. E inutili. A quei tempi, di un disco vendevo 40 mila copie: dopo ventitré comparsate sono passato da 40 mila copie a 40 mila copie. Così ho capito che la televisione non mi serviva. In compenso, due anni dopo ho cominciato a riempire i teatri, e prima non ci riuscivo. E' la forza dell'assenza. Certi colleghi miei non vogliono rendersene conto: hanno l'ansia di comparire, di essere importanti, e corrono di qua e di là, da una rete all'altra. Anche quelli che sono grandi comunque, e sarebbero ancora più grandi se decidessero di fregarsene, di lasciar perdere, di scomparire dal video». Eppure a Ivano Fossati è toccato un palcoscenico persin più inquietante di Domenica In, o del Festival di Sanremo: le pagine dei settimanali pettegoli, le rubriche del gioco delle coppie, le fotografie «sorpresi in tenero atteggiamento». Dev'essere sconcertante, a 42 anni, e per di più cantautore - austero, se il termine non spaventa; e schivo fino alla timidezza - diventare un personaggio da rotocalco ro sa. «Ah, vuoi dire la mia storia con Nancy?», sorride Fossati. E che cosa, sennò? Stai in vacanza e sui giornaletti scopri l'austero cantautore con la celebre attrice. Nancy Brilli la bellissima, Fossati l'intellettuale. Roba da Miller &• Monroe, toute proportion gardée. Carne da scoop Ride di gusto, l'Ivano. «E pensare che Nancy scrive meglio di me. No, dico sul serio, scrive davvero benissimo, è sensibile e colta». In fondo non lo turba, scoprirsi carne da scoop. «E' un'esperienza nuova, per me. Lo so, era inevitabile: ma mi fa ridere, questo sbattersi di persone... I fotografi ti inseguono, si appostano. Con Nancy ci facciamo delle risate infernali. Basterebbe che venissero a chiedere, poveretti, e facciamole 'ste due foto. Ci sono questi ispettori Clouseau acquattati, che ti vien voglia di invitarli a bere un bicchiere. Ma loro, no, duri: fan finta di niente. Devono sorprenderti. Sorprendere chi, e perché, vassapere. Un giorno, in un posto in Romagna, due sono rimasti dalle sette del mattino alle cinque del pomeriggio a rosolare in macchina, di fronte al nostro albergo: sfortuna ha voluto che Nancy e io uscissimo dall'albergo alle cinque e dieci, e quei due se n'erano appena andati». E sembra davvero commosso dalla malasorte di due fotoreporter d'assalto. «E' un mondo che non conoscevo, non lo giudico dall'alto in basso. Mi incuriosisce soltanto. Mi incuriosisce che ci si guadagni da vivere così. E' durissima, meglio la fabbrica». Gabriele Ferraris «A luglio, una notte con De André parlando delle bombe» «La mia storia con Nancy Brilli: ifotografi ci inseguono, si appostano, noi ci facciamo risate infernali» La rivolta contro i neri: «Un tempo eravamo ospitali, abituati alla gente di fuori» A fianco Ivano Fossati 42 anni Nei carrugi di Genova si scatena l'ira contro gli extracomunitari. Dice Fossati: «E' assurdo che sia capitato proprio qui» A fianco Ivano Fossati, 42 anni, nella foto sopra l'attrice Nancy Brilli: scoperti insieme dai settimanali «acchiappasegreti> Sopra Fabrizio De André A sinistra i Delirium, il complesso con cui Fossati esordì negli Anni 70 A destra una veduta di Genova, con l'autostrada che entra nella città Foto in basso: Gino Paoli