Un gentleman sul tetto del mondo

Le prime foto al magnesio con la vecchia Laika Un'elegante cena in smoking nella più fitta foresta indiana il viaggio. Anni 30: il grande orientalista «scopre» il Tibet FOSCO MARAINI Un gentleman sul tetto del mondo FIRENZE DAL NOSTRO INVIATO «Accadde tutto quasi per caso. Ero andato a sciare con un paio di scarponi avvolti in carta di giornale. Quando svolgo il giornale, mi cadono gli occhi su una notizia: annunciava un viaggio in Tibet di Tucci, il grande orientalista, accademico d'Italia. Con l'impeto della giovinezza, presi subito carta e penna e gli scrissi chiedendo se non avesse bisogno di un aiutante, di un coolie. Meraviglia delle meraviglie, Tucci mi rispose, dandomi appuntamento a Roma per parlarne. Credo lo avesse convinto il fatto che sapevo maneggiare la macchina fotografica. Nell'aprile del 1937 mi imbarcavo da Napoli, sul Conte Rosso del Lloyd Triestino, per un viaggio di otto mesi che avrebbe deciso la mia vita. Avevo allora venticinque anni, ero laureato in scienze naturali, nel '35 avevo sposato Topazia Albata, nel '36 ero diventato padre di Dacia». Così Fosco Maraini, ottantuno anni, fiorentino, grande viaggiatore, fotografo e scrittore, il più profondo conoscitore italiano del mondo giapponese e di quello tibetano, rievoca il suo primo viaggio nel Segreto Tibet, come suona il titolo di un suo famoso libro, apparso nel 1951, subito tradotto in una dozzina di lingue, compreso il giapponese, e continuamente riedito. Figlio dello scultore Antonio Maraini, per diversi anni segretario generale della Biennale di Venezia, e di una scrittrice inglese, Yoi Crasse, il giovane Fosco, bello, ricco, sportivo, colto, perfettamente bilingue, rampollo di una borghesia che non amava il fascismo ma ci conviveva convenientemente, aveva ereditato dalla madre una passione esclusiva per i viaggi. «Arrivammo a Bombay in nave e affittammo un'automobile per Calcutta. Poco oltre proseguimmo a piedi, in una piccola comitiva. I viaggiatori europei eravamo soltanto Tucci e il sottoscritto. Giuseppe Tucci era all'epoca il più grande orientalista italiano, dai tempi lontanissimi di Matteo Ricci, missionario e cartografo in Cina nel Seicento, e Ippolito Desideri, il gesuita che visitò il Tibet nel Settecento. Aveva uno sguardo a spillo e amava esercitare l'autorità. "Chi non collabora - diceva - lo schiaccio come un insetto". Quando si eccitava per qualche scoperta, un monumento, una scultura, un affresco, un libro, prorompeva in una specie di risata faunesca. "Venga qui con i suoi trabiccoli", mi ordinava perché andassi a fotografare. Aveva diritto al titolo di Eccellenza: in otto mesi, viaggiando in mezzo alle foreste, salendo i passi himalaiani, lui che mi dava del tu non disse mai "chiamami professore". Si fece sempre chiamare Eccellenza. Questo era Giuseppe Tucci. «Noi eravamo la sua corte. Intendo dire, oltre al sottoscritto, il lama Sonam, silenzioso e imperturbabile, assunto come segretario ed esegeta, che si era rifiutato di andare a piedi e aveva preteso una sua cavalcatura, il factotum Khalil, un kashmiro musulmano dall'aria gaia, compagno di Tucci in precedenti viaggi, il cuoco Norbhu, che era bruttissimo, umile, lavoratore, ma così pio da rifiutarsi di ammazzare qualsiasi animale, e il giovane Thondup, un tibetano con il codino, che mi portava l'attrezzatura fotografica e mi dava una mano nelle riprese. Io avevo due macchine: una Laika e una Voigtlànder. Per essere sicuro che le fotografie fossero riuscite bene, le sviluppavo ogni due o tre sere, in condizioni un po' fortunose, sotto una cappa nera. Una cosa avventurosa erano i flash: versavo su un piattino la polvere di magnesio, che si accendeva al contatto con la scintilla prodotta da una pietra focaia. Credo di avere scattato e sviluppato tremila fotografie. «Il nostro abbigliamento? Tradizionale equipaggiamento da media montagna: maglie e maglioni, pantaloni alla zuava, calzettoni e scarponi. Però nei bauli avevamo portato anche lo smoking, perché Tucci aveva in India una rete di relazioni e nel mondo coloniale si nutriva un sacro rispetto per le forme. Ricordo ancora una cena nella residenza di un amministratore locale, circondata da ogni parte per almeno ottanta chilometri da fitta boscaglia, un posto assolutamente fuori dal mondo, ma gli uomini erano in smoking, le signore in abito lungo, dietro ogni ospite attendeva un indiano col turbante pronto a servirlo. Come in un romanzo di E. M. Foster. «Io ero abbagliato dai panorami. Che offrivano uno spettacolare contrasto. Il primo mese di cammino attraversammo le grandi foreste tropicali che coprivano il versante meridionale della catena himalaiana: alberi giganteschi dalla vita secolare, grovigli di liane, grandi orchidee, felci arboree, enormi farfalle e scimmie che saltavano in mezzo al fogliame. Come se avesse preso vita uno di quei magici dipinti di Rousseau il Doganiere. Adesso questo ambiente non esiste quasi più: le piante dal legno pregiato sono state abbattute e a ridosso dei tronchi mozzi è cresciuta una foresta secondaria. Poi incontrammo, a 4-5 mila metri, distese sterminate di rododendri arborei che sembravano del tutto impenetrabili tanto erano intricate: per fare cinquanta metri ci volevano quindici minuti, quando poggiavi il piede i fasci di rami si abbassavano, sotto il peso del tuo corpo, facendoti sprofondare, e come rialzavi il piede per completare il passo, si rialzavano di colpo, chiudendoti in una prigione. Se lo Yeti esiste, di sicuro abita lì. «Infine arrivammo sull'altopiano tibetano, secco e giallo, sotto un cielo totalmente azzurro. Si coglieva una specie di violenza in questo contrasto dei colori, netti e intensi, dentro una dimensione infinita dello spazio, interrotta soltanto dai bianchi Chorten, i reliquari tibetani a forma di pinnacolo. «Eravamo nel 1937, ma io potevo domandarmi: non saremo invece nel 1637? O magari nel 1437? Non c'erano strade, non c'erano motori, non c'era nulla che ripetesse o ricordasse la cultura occidentale. Eravamo precipitati nel medioevo asiatico. I tibetani erano nei nostri confronti estremamente ospitali: aperti, cordiali, estroversi, allegri, assai diversi dagli indiani e dai nepalesi, più sospettosi, più diffidenti, nei confronti degli europei. Sia con le carovane che incontravamo sia nei monasteri che visitammo, i rapporti erano facilissimi e simpatici. Le donne? Ah, le donne tibetane sono straordinarie. Come la principessa Pemà Choki, che conobbi nel mio secondo viaggio - Tibet 1948, ancora con Tucci - e che ho fotografato e raccontato. Intelligente, altera, colta, di porcellana il corpo, una perla il volto. Lei possedeva delle no¬ zioni sull'occidente, avendo studiato in un collegio indiano, anche se confondeva Flaubert, lo scrittore Gustave, con Colbert, l'attrice Claudette; ma della civiltà tibetana conosceva profondamente ogni aspetto e amava le tradizioni. «Voglio dire che anche se il Tibet era sprofondato nella sua antichità, le donne avevano una posizione preminente, a differenza delle loro vicine indiane, nepalesi, cinesi, che le giudicavano sfrontate: viaggiavano, vendevano, compravano, decidevano, erano inferiori all'uomo solo nei pubblici affari. «Vuole sapere com'ero io a quel tempo? Beh, ero sano e forte, capace di camminare decine di chilometri senza stancarmi e di salire agevolmente qualsiasi pendio. Sì, sì, ero abbastanza sicuro di me stesso, perché avevo avuto una buona educazione borghese. Mi rendevo conto di trovarmi in una situazione eccezionale e privilegiata, perché per un italiano i contatti extraeuropei erano limitatissimi: potevi essere stralaureato e tuttavia non sapere nulla dell'Islam, del Buddismo, della Cina, del Giappone. No, non mi sentivo un estraneo, oppure un intruso, non guardavo quel mondo come se fosse qual¬ cosa di strano. E' difficile da spiegare, ma io ho sempre pensato che in tutti gli individui c'è un identico sostrato umano, sul quale si sovrappongono le naturali differenze di lingua e di civiltà. Conoscere i tibetani rappresentava per me una reintegrazione della personalità. «Al ritorno in Italia, mi colpì proprio il sostanziale disinteresse che la gente mostrava per la civiltà orientale. Sì, sì, tenni conferenze o raccontai in privato la mia esperienza, ma non trovavo quella curiosità che mi aspettavo. Avvertivo sempre un divario incolmabile fra ciò che io avevo visto e ciò che la gente voleva sapere. Forse perché noi italiani non avevamo alle spalle, come gli inglesi, oltre due secoli di rapporti con il mondo orientale attraverso il colonialismo, con quella specie di ping pong tra madrepatria e colonie che faceva parte della vita quotidiana della borghesia inglese. Da noi, invece, l'interesse per l'Asia è arrivato soltanto in questi decenni, perfino se vogliamo con i viaggi organizzati, in India, Nepal, Thailandia, Sri Lanka, ma sessantanni fa il nostro orizzonte culturale finiva con il mondo europeo, né ci aveva arricchiti l'avventura africana». Alto, dritto, ancora vigoroso, Fosco Maraini tradisce l'età soltanto in una punta di stanchezza che affiora dopo due ore di colloquio. E' come se improvvisamente i ricordi di quel viaggio lontano e abbacinante si dileguassero. Mi regala una copia di Segreto Tibet, anche una copia di Fosco Maraini. Una vita per l'Asia, il bel catalogo di una mostra dedicatagli cinque anni fa dal Museo nazionale. della montagna di Torino. Sulla copertina del catalogo ecco il volto perlaceo della principessa Pemà Choki, nel suo costume tibetano da montagna, fo¬ tografata durante una escursione in sci sulle nevi tibetane. La sera davanti al fuoco parlarono di Verlaine, Keats e degli «uomini vento», quei monaci tibetani che dopo anni di ascesi riescono a liberarsi del peso corporeo, percorrendo leggeri centinaia di miglia in un solo giorno. «Quel viaggio del '37 decise la mia vita. Tornato a Firenze, vinsi una borsa di studio all'Università giapponese di Hokkaido. Partii per il Giappone nel '38 con mia moglie e Dacia e vi rimasi per otto anni, fino alla fine della guerra. Lì sono nate le altre due mie figlie, Yuki e Toni. Dieci anni dopo pubblicai Ore giapponesi, tradotto anch'esso in varie lingue. Poi il Cai, negli Anni Cinquanta, mi invitò alla spedizione al Gasherbrum IV nel Karakorum, come consulente scientifico e cronista, così vissi con Cassin, Bonatti, Mauri, De Francesch, arrivai fino a 7400 metri, non avessi avuto cinquantanni forse sarei andato in vetta. «Ah, ecco, lei vuole che ricordi come ho perso il mignolo della mano sinistra. Dopo l'8 settembre 1943, avendo optato per Badoglio, per i giapponesi eravamo diventati dei traditori. Avevano rinchiuso in campo di concentramento la mia famiglia e altri italiani. Le nostre condizioni sarebbero state abbastanza accettabili, se la polizia del campo non ci avesse sottratto la gran parte delle razioni alimentari. Arriva vano per noi uova, latte, carne, biscotti che non vedevamo mai Allora decidemmo uno sciopero della fame, che provocò un violento confronto con i capi della polizia locale. Siete dei traditori, ci dicevano, sarebbe giusto fucilarvi. Ci accusavano di mentire, con l'atteggiamento minaccioso, arrogante e sprezzante, che giapponesi tengono quando vo gliono dar mostra di disistima per qualcuno. Allora capii che bi sognava fare qualcosa nella loro linea di pensiero. Davanti a loro, presi un'accetta, mi tranciai il mignolo e glielo gettai in faccia. I giapponesi hanno l'ossessione della sincerità e la prova massi ma di sincerità è il suicidio. Non mi sembrava il caso di giungere a tanto: tagliarsi un dito e buttarglielo in faccia era un modo più banale, ma spettacolare e im pressionante, per rimettere alla pari il nostro rapporto». Alberto Papuzzi E durante la prigionia in Giappone con la moglie e la figlia Dacia sfidò il carceriere amputandosi il mignolo Le prime foto al magnesio con la vecchia Laika Un'elegante cena in smoking nella più fitta foresta indiana Le avventure di un giovane borghese lontano dalfascismo o. o di ra o e az e n di ener nga. aso gera in vo Ancora Maraini in Tibet negli Anni SO, a destra in alto l'orientalista sul Karakoroum con gli scalatori Riccardo Cassin, Walter Bonatti, Toni Gobbi e Carlo Mauri Da sinistra, la principessa Pema Choki e Maraini con Gyantse nel 1937