Addio «Scaramouche» di Gianni Rondolino

Santa Monica: Stewart Granger aveva 80 anni, da tempo era malato di un cancro alla gola Santa Monica: Stewart Granger aveva 80 anni, da tempo era malato di un cancro alla gola Addio, «Scaramouche» Un uomo atletico e molto generoso LOS ANGELES. Stewart Granger, indimenticabile «Scaramouche» e soprattutto l'esploratore accanto a Deborah Renne «Le miniere di Re Salomone», è spirato l'altro ieri, assistito dai quattro figli, Tracy, Lindsay, Samantha e James, al St. John's Hospital di Santa Monica. L'attore aveva 80 anni e da tempo soffriva per un cancro alla gola. Lo ricordiamo soprattutto come protagonista di film d'avventura o di cappa e spada, Stewart Granger, un attore atletico, pieno di vita, elegante. Aveva dato ai suoi personaggi, in una serie di film degli Anni Cinquanta, una caratterizzazione alquanto personale. Forse non era un grande attore, né ebbe modo, probabilmente, di esplicare appieno le sue doti drammatiche, ma i suoi personaggi, sempre impeccabili, un poco freddi e manierati e tuttavia ricchi di una tensione interna, rimangono tra i migliori di un modello di cinema spettacolare che si basa sui facili effetti di un contrasto psicologico tratteggiato secondo i consueti canoni della drammaturgia hollywoodiana classica. Era nato a Londra nel 1913, al secolo James Stewart, ed era diventato col nome d'arte di Stewart Granger un attore di spicco nel panorama non molto ampio della cinematografia britannica del tempo. Erano gli anni di guerra e dell'immediato dopo¬ guerra: Granger costruiva i suoi personaggi, spesso di uomo tenebroso, romantico, ricco di fascino, con quella cura propria della tradizione inglese, tanto sul palcoscenico (dove aveva esordito negli Anni Trenta) quanto sullo schermo. Aveva sposato Elspeth March, attrice anche lei, e poi Jean Simmons, di sedici anni più giovane di lui, con la quale interpretò alcuni film di successo, fra cui «Adamo ed Evelina» (1949) di Harold French. Nella maturità avanzata si unì alla reginetta di bellezza belga Viviane Lecerf. Granger era celebre non solo come amatore, ma anche per la sua stravagante generosità: si narra fosse capace di regalare un visone alla fidanzata di un amico solo perché era giù di morale. L'Europa, soprattutto la Gran Bretagna, non potevano offrirgli quella notorietà internazionale a cui aspirava. Così, insieme con la seconda moglie (candidata all'Oscar per la sua interpretazione di Ofelia nell'«Amleto» di Laurence Olivier), raggiunse Hollywood agli inizi degli Anni Cinquanta. Ma gli studi cinematografici californiani, che pure gli diedero, almeno in parte, la fama di attore raffinato, discreto, dal fascino sottile e dalla grande vitalità, non furono per lui quell'Eldorado che sperava. In altre parole Stewart Granger non divenne mai un divo, come lo era stato ad esempio Errol Flynn in quel genere di film - d'avventura e di cappa e spada - in cui meglio egli sapeva esplicare le sue doti di interprete. Certo i personaggi da lui creati in quegli anni non si dimenticano. Fu un simpatico e accattivante protagonista in «Scaramouche» (1952) di George Sidney e un personaggio forte e vigoroso, e persino un poco inquietante, nel «Prigioniero di Zenda» di Richard Thorpe, del medesimo anno. E fu un efficace deuteragonista, con Robert Taylor, in «Fratelli rivali» (1953), sempre di Thorpe. Ma proprio in questo film, la vicinanza con un attoredivo come Robert Taylor ne mise in rilievo la sostanziale differenza. Nel senso che la sua presenza sullo schermo, pure corposa e non priva di aspetti caratteristici, non riusciva ad essere «divistica». Come se a Stewart Granger mancasse qualcosa, quell'elemento non facilmente identificabile, sostanzialmente ineffabile, che fa di un attore cinematografico un divo dello schermo. Per certi aspetti risultò più incisiva l'interpretazione del bel western di Richard Brooks, «L'ultima caccia» (1956), in cui tratteggia una figura meno legata ai canoni dei film d'avventura, più sfaccettata e problematica. Quasi a dare conferma a un sospetto critico, da pochi espresso ma forse non ingiustificato: che il meglio di Granger non sia nelle opere più esplicitamente spettacolari, nei personaggi più dichiaratamente «hollywoodiani», ma in film minori, in caratterizzazioni meno evidenti. Da questo punto di vista potrebbero essere rivelatrici le sue prime interpretazioni inglesi, i suoi primi film intimisti e romantici. Ma ormai Hollywood l'aveva incasellato in un modello relativamente fisso e ripetitivo. Granger andava bene per il genere avventuroso, in tutte le sue articolazioni e variazioni: dal western al film di cappa e spada, dallo storico al contemporaneo, dalle avventure in Africa o in lontani Paesi ai conflitti bellici. E poi l'aveva scartato. Tornato in Europa, Stewart Granger fu l'interprete di molti film di consumo, spesso in parti di secondo piano: i suoi personaggi erano ancor più schematici e unidimensionali di quelli di un tempo. Scarso approfondimento psicologico e comportamentale, bella prestanza fisica e collaudato fascino virile. Con qualche ruga in più e una bella chioma precocemente canuta. Anche la televisione lo catturò, ed egli diede vita, fra l'altro, al personaggio di Sherlock Holmes in una serie di scarso rilievo. La sua stagione era definitivamente tramontata. Gianni Rondolino Intrappolato dal genere avventuroso fu grande nel «Prigioniero diZenda» Stewart Granger con la moglie Jean Simmons alla festa per la prima di «Bulli e pupe», di cui lei era protagonista. A sinistra, lui in «Cesare e Cleopatra»

Luoghi citati: Africa, Europa, Gran Bretagna, Hollywood, Londra, Los Angeles