Come distruggere un Paradiso

Come distruggere un Paradiso Come distruggere un Paradiso Ma fra Tirreno eJonio resta qualche oasi LE SPIAGGE DI CEMENTO C HI mi 1 legge stia attento. Alla Calabria mi lega un rapporto di odio e amore tremendo. Reciproco. O almeno lo era. Risale a vent'anni fa, quando lavoravo al «Giornale di Calabria». Ma vada, l'avventuroso visitatore, per prima cosa a vedere il fantastico porto lunare e intercontinentale, spaziale ed extraterrestre, di Gioia Tauro: vi si arriva dopo la foresta di famosi e quasi inaccessibili ulivi secolari grandi come sequoia, e si incontra di colpo un mare abissale e lucente, regolato dalla geometria tagliente dell'uomo, che ha segato la costa con riga e squadra. Avrebbero potuto e dovuto attraccarci superpetroliere grandi come astronavi: vi attracca invece una varchetiella a remi di un custode che pesca nelle ore di riposo, tutte, e accoglie qualche amico e qualche turista disperso. Di seguito, e per contrasto salutare e straziante, si potrà correre sull'altro mare, lo Ionio, a vedere Crotone (stabilimenti turriti della Montecatini e gas detti «i fumi» per la loro antica tossicità) e Le Castella, i mari pirateschi e mafiosi dove ancora di notte arrivano di tanto in tanto armi e droga della 'ndrangheta. Non so se chi mette piedi oggi per la prima volta in questa regione può rendersi conto di quello che vent'anni fa parve evidente: la Calabria non è una regione, ma un continente. Non è una nazione (come forse è la Sicilia, o Napoli, o Venezia) ma un melting-pot. E la prima drammatica caratteristica della Calabria è questa: non sa trattenere i suoi uomini e non sempre - anzi quasi mai - sa credere nelle proprie capacità. I cosentini, imparai, si danno del «gioia», nel senso di «tesoro», o «caro», così come certi americani si chiamano «honey». Ma il loro rapporto con la burocrazia è assolutamente borbonico, se non è cambiato nel tempo, cosa di cui dubito. Quando nasce un bambino, il padre non va semplicemente a registrare la nascita all'anagrafe, ma comincia un giro di telefonate d'appoggio: «Chi ci conosci tu al Comune?». Ma, per scendere nel dettaglio, ■bisogna anche dire che i calabresi (e non lo Stato, il governo, i ladri di Roma) hanno distrutto, fatto polpette, massacrato e reso indecente uno dei posti più belli del mondo. Naturalmente ò ancora possibile trovare in Calabria luoghi fantastici sul Tirreno, fra Ma- ratea e Paola, e poi a Pizzo e a Scilla; e sullo Ionio lungo un litorale a tratti bellissimo e a tratti monotono. E persino sulla Sila, nelle campagne, fra gli uliveti di Gioia Tauro. Ma la sostanza è che quasi tutta la costa calabrese è stata martoriata dal cemento, che non è il cemento della grande speculazione edilizia, ma della seconda casa familiare costruita in barba e in deroga di ogni legge. Un mio amico geometra mi portò di notte in un posto della zona ionica sul quale la luna gettava luci opalescenti e diafane che chiamavano alla luminosità tutti i sassi bianchi, e i frammenti di marmo, piccoli bassorilievi frantumati. 11 mio amico con aria complice mi disse: «Vedi? Questo era un mio campo. Capisci la disgrazia? Quando ho cominciato a scavare ho trovato una necropoli paleocristiana su una grecanica. C'era l'ira di Dio: tempietti, ville romane, affreschi, tombe. Un disastro. Per fortuna, con il compare mio potemmo affittare due trattori e così nel giro di una settimana distruggemmo tutto. Adesso lo posso vendere, ci posso fare la casa... tutto». Così la costa calabrese è stata ridotta una poltiglia di orrori. La montagna è una sorta di periferia di Varsavia moltiplicata per l'Istituto case popolari di Ostia Lido. Quello che propongo a chi viag¬ gia per queste terre è di andare a caccia di quel che resta di una stagione e di una terra che meriterebbero di tornare allo stato di un tempo per nulla lontano. Sì, credo che la Calabria, per essere salvata, amata, aiutata, vada prima di tutto esplorata, capita, censita, fotografata. Io contai non meno di cinquanta stazioni di servizio incistate in residui di chiese barocche. Dicevo che la Calabria è un continente e un «melting pot» di razze e di lingue. Soltanto per questo meriterebbe di essere curata e salvata, prima di tutto dai calabresi, sue rovinose vittime e superficiali distruttori. La Calabria cosentina è di fatto una propaggine del Napoletano, la cui lingua esercita la sua influenza, benché sia accennata la «tch» siciliana del gruppo «tr». Dalla parte occidentale si sono stratificate nei secoli generazioni di fuggiaschi, fra cui molti esuli religiosi e protestanti: i più noti sono i piemontesi di Guardia Piemontese, ma la Calabria è stata la più ospitale delle terre. Esistono alcune zone in cui si parla ancora un dialetto con tracce di greco omerico. Ricordo un paese del Reggino, si chiama Galileiano, in cui ai bambini si inse¬ gna di nuovo a parlar greco antico. Il pane da quelle parti viene chiamato spomì, che è una metatesi di psomì. Fino a qualche anno fa arrivavano da queste parti glottologi tedeschi e francesi per registrare i veri suoni della lingua di Omero, ben diversa da quella greca (la lingua «basilea»), derivata dalla fuga dopo la caduta di Costantinopoli: fu in Calabria che gli esuli greci apprezzando la carne di maiale commentavano «arista, arista», buona, ottima, da cui l'arista di maiale, che è frutto di un equivoco. A Cosenza un filologo che conosceva bene le carte vaticane mi mostrò un editto settecentesco del re di Napoli in cui si rinnovava, vanamente, il divieto a far uso del greco per i documenti notarili (testamenti, rogiti, ecc.), raccomandando invece il latino, in uso in tutto il regno. E poi gli albanesi, anch'essi arrivati con l'ondata di Skandenberg. Uno dei giovani colleghi calabresi dell'epoca era un gigante dalla barba color del ferro, forte e buono come un taglialegna delle fiabe, «ghiegghiu», ovvero albanese. L'ho rivisto da qualche parte in tv. Fu lui a raccontarmi che quando arriva (arrivava) il console albanese per la cerimonia annuale in memoria dell'antica diaspora dall'Albania in Italia in qualcuno dei paesi albanesi della provincia di Cosenza, toccava sempre a qualche vec¬ chio contadino Calabro-albanese pronunciare un discorsetto nella madrelingua. Ma l'albanese che si parla in Calabria è cinquecentesco e quando gli albanesi moderni lo sentono lo trovano comico e straziante, come potrebbe accadere a uno di noi che trovasse una comunità italiana che parlasse il toscano di Machiavelli e iniziasse la sua frase con un «imperciossiacosaché, messer lo prence...». La Calabria che il visitatore, cosa diversa dal turista stanziale, può cercare con gioia e godere insieme a quel che resta dei doni negletti di madre natura, è quella delle etnie: può costituire un utile arricchimento specialmente per leghisti e valligiani del Nord (e sia detto con animo del tutto pacifico) perché in questa terra vive un impasto umano formato da longobardi, alcuni teutoni, molti saraceni, greci omerici, greci bizantini, spagnoli, napoletani, fenici, autoctoni, latini, comunità ebraiche, comunità protestanti. La Calabria può far impazzire il visitatore, portarlo a una irreversibile follia, spingerlo fino agli ultimi orsi, ai tassi, ai lupi, alle bestie di piccola e antica ferocia dell'alta montagna. Non esiste, malgrado tutto, alcuna identità unificante, salvo il degrado, la doglianza, il silenzio alternato a una compiaciuta magniloquenza. Molti giovani hanno ormai disperso e smarrito il legame con i dialetti e gli argot antichissimi, senza per questo accettare e lasciar germogliare un buon italiano, lingua più morta del greco e del latino, che in genere si apprende dai codici di giustizia, i verbali di polizia, gli interventi aulici e reboanti delle manifestazioni ufficiali e delle esequie. Paolo Guzzanti Il degrado avanza dovunque ma il visitatore trova ancora dialetti greci e animali rari 1 Cementificazione, abbandono, terre bruciate: così i calabresi lasciano morire la loro terra. Che comunque, per il visitatore, può riservare belle sorprese, come la ricerca di etnie irripetibili, e poi orsi, tassi, lupi, bestie di piccola e antica ferocia dell'alta montagna

Persone citate: Castella, Machiavelli, Paolo Guzzanti, Paradiso