«la pace qui? Mi viene da rìdere»

«la pace qui? Mi viene da rìdere» «la pace qui? Mi viene da rìdere» «Troppi interessi in gioco, non cambierà nulla» SARAJEVO CITTA' APERTA SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO Insomma, Comandante, non cambierà nulla? Ciuka prende una sigaretta, ci sputa sopra, l'accende: «No». La scena è vagamente «noir». Bar, buio, fumo, e quell'odore di fogna che ormai pervade tutta la città. Due lattine di Coca Cola calda sul tavolo e la radio che ripete: «Sarajevo, otvoreni grad». Sarajevo, città aperta . L'Onu al governo, tolto l'assedio, le tavole imbandite. E' così, Comandante? «Nelle favole, forse. Ma qui andrà in un altro modo». Il comandante Ciuka è un ladro, cioè un soldato, cioè un eroe... L'eroe di Sarajevo. Ha svaligiato banche e salotti di mezza Europa, Italia compresa, si è fatto due anni di galera in Francia e poi è tonato a Sarajevo con i soldi necessari ad aprire un bar, che ha chiamato «Club 68», riempiendolo di graffiti studenteschi e slogan di Marcuse. Quando è scoppiata la guerra, Ciuka ha impugnato il fucile, ha armato 300 ragazzi del quartiere e si è autoproclamato loro comandante, andando a combattere contro i serbi che sparavano dalle colline. Forse c'è un confine fra il bene e il male ed è il senso di giustizia. Ciuka il ladro deve essere un uomo giusto, perché qualcosa gli è scattato dentro. Ha cominciato a trarre in salvo i vecchi e le donne; ha ingaggiato battaglie per conquistare un quintale di farina e portarlo ai bambini orfani che abitano vicino al fiume e che quando lui arriva sulla sua Mazda fiammante - e chiaramente rubata - gli accarezzano le mani, che lui tiene ben salde sopra il mitra. Il Comandante è biondo, ma per il resto sembra Marion Brando. Ha 35 anni e le rughe della guerra che piacciono molto alle ragazze. Il futuro prossimo di Sarajevo ce lo racconta lui: «Questa città continuerà a vivere sul mercato nero. Troppi gli interessi in gioco. Chi ha fatto tanti soldi, non vuole smettere e troverà nuove persone da corrompere. Il governatore nominato dall'Onu sarà il primo a collaborare. Sarajevo è la Mecca dei Caschi Blu». Le prove, Comandante... «Le prove? Eccole qui». Stritola la lattina di Coca Cola che ormai bolle sul tavolo. «Questa dovrebbe costare due marchi, ma viene pagata uno e rivenduta a 15». E l'Onu che c'entra? «Già, e da dove credi che arrivi tutta questa roba, piena di scritte in francese? La droga, poi. Non ce n'è mai stata così tanta a Sarajevo. I soldati smerciano eroina e poi fanno a metà con gli ufficiali. E con i funzionari della polizia, s'intende. Le paghe sono basse, ognuno si arrangia come può. Sarajevo città aperta... Mi fanno ridere». Ed esibisce un .ghigno che fa venire in mente tutto, tranne una risata. «Sì, mi fanno proprio ridere. Chi disarmerà la gente? Ci sono tremila uomini armati in città. Chi disarmerà Zazo, e Miljan, e Mohed...». Chi disarmerà lui, soprattutto. Cediamo volentieri all'Onu l'incombenza. «Ho preso il fucile per difendere la mia gente, non i politici e la corruzione. Finché loro continuano, continuerò anch'io». Non c'è solo Ciuka a diffidare della pace. Il vicepresidente Ganic già parla di un «trucchetto» e accusa l'Europa di non voler convivere con l'Islam, ma la conferma più importante andiamo a cercarla dentro la moschea, dove abita Mustafa Celie, rais di tutte le Bosnie e capo religioso dei musulmani di Sa¬ rajevo. Ci accoglie il suo vice, Ismet Spekic. I serbi gli hanno ucciso la moglie, tre figli e una nipotina. Dice: «Dio mi ha tentato. Vuol vedere qual è la mia forza». Il rais aspetta oltre la porta, in turbante e mantello nero, sotto il quale s'intravede il grigio dell'abito, coordinato coi calzini. E' un osso duro. «Temo che con questa soluzione di pace i crimini serbi saranno amnistiati. C'è una sorta di ipocrisia. Si proclama città aperta Sarajevo, dove i musulmani sono la maggioranza. Allora succederà questo: che un croato potrà passeggiare tranquillo per Sarajevo, mentre il musulmano continuerà ad essere ucciso a Mostar. E quando il serbo di Sarajevo riderà, ci sarà un musulmano a Banjaluca che starà piangendo». Il rais è attento agli affari: Sarajevo può diventare, in economia, la «Hong Kong dei Balcani». Prima, però, viene la fede: «250 mila morti, 30 mila donne violentate, 200 campi di concentramento, un milione di rifugiati, 800 moschee distrutte. Questi i crimini compiuti contro di noi. E il nostro crimine? Uno solo: appartenere all'Islam. Questo è il pensiero dell'Europa. Una volta vi ispiravate all'umanismo ed alla democrazia, ma questi principi sono stati sotterrati in Bosnia, dove è riapparsa un'altra Europa, quella fanatica del Medioevo». Si esce dalla moschea con una convinzione: ci sono troppi «ma» per arrivare alla pace. E neanche il sindaco, Muhamed Kresevljakovic, riesce a vedere un po' di rosa in fondo alla sali- ta. Il Comune di-Sarajevo è un vecchio palazzone comunista, dove si respira ancora la polvere del regime, che è rimasta impigliata alla moquette spessa e triste dei corridoi, angusti e privi di luce come il quadro appeso nell'ufficio del sindaco, appena dietro la sua faccia scheletrica. «Città aperta, ottima soluzione. Ma l'inverno sarà difficile e si porterà via molti vecchi è molti bambini. Io, comunque, fra un mese me ne vado: a fare il console a Milano». Il capo dei sindacati lo guarda con invidia, mentre le sue mani continuano una sorda lotta con l'ampolla del caffè. Boro Bjelibrk, bretelle col tricolore francese, professa l'ottimismo dei disperati: «Ben venga l'Onu, così almeno un risultato lo avremo ottenuto: far fuori tutti i politici che ci hanno governato fino ad oggi». Il sindaco accenna un inchino di ringraziamento. Ma sulla porta è già comparso il suo predecessore, il croato Juraj Martinovic, docente universitario di filosofia. L'assedio è stato tremendo, soprattutto con gli intellettuali: a Sarajevo li riconosci subito, perché sono i più magri di tutti. Il professor Martinovic ha più buchi che stoffa nella sua cintura e la vecchia giacca di marca americana gli balla sulle spalle: «Guai se fosse passata l'idea mostruosa dei serbi di spartirsi etnicamente la città. Sarajevo sarebbe diventata come Beirut. Ogni città dovrebbe essere aperta. Figuriamoci questa, dopo 18 mesi di inferno...». Un po' di speranza, per favore. Andiamo a cercarla in una banca, abitata da uno dei tanti personaggi da romanzo che si incontrano nella città assediata. Nuradin Kusturica è forse l'unico abitante di Sarajevo a parlare italiano con un marcato accento piemontese. Da giovane, ha fatto pratica al «San Paolo» di Torino e la cadenza gli è rimasta addosso come un ricordo da coltivare con nostalgia. Più ottimi sta di un californiano, ha già fondato una banca per la ricostruzione che verrà: la Vafurksa. Come prima operazione, si è fatto mandare dall'Italia 2 mila tonnellate di sementi, e le ha distribuite ai cittadini di tutta la Bosnia, per alimentare gli orticelli di guerra, che crescono impavidi sui balconi: pomodori, cavoli, cipolle... Sarajevo cerca di farsi trovare un po' più in carne all'appuntamento con la pace. Massimo GrameUini Lo sfogo dei musulmani: i croati staranno tranquilli, mentre noi saremo sempre perseguitati Una delle bambine che non sono state sgomberate da Sarajevo [foto ansa] Scene di gioia a Sarajevo mentre i Caschi Blu pattugliano il mercato A fianco, i bambini tornano a scuola [foto reuterj

Persone citate: Comandante, Ganic, Kusturica, Marcuse, Marion Brando, Muhamed Kresevljakovic, Mustafa Celie, Zazo