Lotteria per l'aereo del dolore di Massimo Gramellini

Uno dei prescelti è morto di un tumore Non c'è tempo di avere pietà, perché ora c'è un posto in più per la speranza Lotteria per l'aereo del dolore Un posto per fuggire, mille bimbi in lista NELL'OSPEDALE PERDUTI SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO Cm E' ancora un posto sul" l'aereo del dolore che decolla stamattina da Sarajevo. Un posto e mille bambini feriti che hanno bisogno di partire, mille mamme che inseguono i medici lungo i corridoi e li tirano per il camice, implorano, minacciano, pronte a tutto pur di guadagnare una promessa, magari solo di uno scatto in avanti nella Usta d'attesa. E' arrivato il giorno in cui anche la carità è costretta a scegliere. I medici dell' Onu perlustrano i re parti dell'ospedale Kosevo* stilando classifiche di malati e gerarchie di sventura che cambiano di continuo, perché nel frattempo qualcuno dei prescelti è morto. Ieri è toccato ad un bambino con un tumore all'addome. La sua fine, è terribile dirlo, ha riaperto molti cuori alla speranza, perché ha liberato una barella sul volo di Ferragosto. Secondo le ultime informazioni, che qui diventano penultime dopo mezz'ora, da Sarajevo se ne andranno in 41. La chiamano «operazione Irma», in onore della bimba che ha commosso il mondo. Ma-partiranno 37 adulti e soltanto 4 bambini. Un bel problema per Adis. Chi avrà il coraggio di andare a dire a sua madre che per lui, almeno per ora, non c'è posto? Adis Avdic sorride senza un dentino dal letto di destra della stanza 51, reparto Pediatria. Sorride perché il momento è solenne: da un paio d'ore in ospedale è tornata la luce e, per la prima volta dall'inizio dell'anno, le infermiere stanno per servire un pasto caldo: passato di pomodoro e purea di patate in polvere. Sono gli effetti della tregua firmata ieri, sulla cui durata, comunque, nessuno è pronto a scommettere. Adis già brandisce il cucchiaio, pronto all'azione. E' un bambino biondo di 5 anni, bellissimo, con le sue grandi bretelle blu di cui deve andare molto orgoglioso, dato che le mostra a tutti. Non ha scarpe. Non gli servono più. Tre mesi fa, una granata lo ha colpito nel cortile di casa mentre giocava a pallone. Aveva appena fatto gol. Una pioggia vigliacca di schegge gli ha inondato le vertebre e adesso Adis ha le gambe paralizzate. Eppure i piedini si muovono ancora, forse sarebbe possibile salvarlo, fargli di nuovo segnare un gol. Già, ma non qui, non in questo ospedale dove manca tutto, tranne la disperazione. Il padre, Omer, anche lui ferito in guerra, è un ragazzo di trent'anni alle prese con qualcosa più grande di lui. Dice: «L'Onu sostiene che mio figlio non è in pericolo di vita, che può essere curato qui. Ma ditemi voi come si fa». Non c'è niente, nemmeno l'acqua. Figuriamoci gli strumenti per avviare una rieducazione di per sé già proibitiva. «Mio figlio - continua Omer ha avuto un'infezione urinaria, il mese scorso, e non riusciamo neanche a sapere se è guarito, perché non c'è una diagnosi che possa dircelo». Intanto, Adis e il suo cucchiaio stanno lavorando duro: la purea ormai è sistemata e del brodo non resta che qual- che traccia rossastra in fondo al piatto. La mamma, Amela, due occhi neri che non si chiudono da troppe notti, gli accarezza le gambe inerti: «E' venuto un medico inglese, ieri. L'ho pregato, scongiurato di lasciar partire mio figlio con il prossimo aereo. Ha detto che riesaminerà il caso. Ma io non gli credo più. Vi prego, aiutatemi a farlo volare in Italia. Sono pronta a partire con lui anche subito, per andare dovunque lo possano ancora curare». Lutvo Kodzic, il primario, scuote la testa: «Purtroppo non sono io a decidere. La usta dei partenti la fa l'Onu e per ora c'è dentro soltanto uno dei miei bambini: ha un tumore al midollo spinale, che qui noi non possiamo neanche diagnosticare». «I miei bambini», li chiama quest'uomo calvo e coraggioso, che in questa città dove tutti hanno un'arma è l'unico a non possedè- re più le sue: il bisturi, le radiografie e una sala operatoria decente. Pronuncia numeri terribili, conditi da una profezia: «In un anno sono morti 1400 bimbi, di cui solo 18 per cause naturali, estranee alla guerra. E quelli feriti sono 15 mila. Se quest'assedio continua, Sarajevo resterà senza bambini». Per adesso, ce ne sono ancora. Spuntano all'improvviso per la strada, così magri e tristi, ma se gli fai una boccaccia te la restituiscono subito, insieme ad un sorriso. Molti hanno la pelle ustionata dagli scoppi e qualcuno più affamato degli altri rovista nei bidoni della spazzatura. Dovrebbero essere tutti ricoverati in ospedale, ma al Kosovo non c'è spazio per chi cammina ancora sulle proprie gambe. Rientriamo in quell'inferno, per aprire. Importa virinola quella di Adis. C'è un lettino e dentro un bimbo musulmano già grande, con un ciuccio primordiale che gli pende dalla bocca e una pezza sporca di sangue sulla pancia. Gli facciamo una carezza e lui esplode in un acuto: «Marna», «Dada», mamma, papà. «Salem è orfano», spiega con voce tremante il dottor Kodzic. «Non credo che ce la farà». Un cecchino gli ha sparato allo stomaco per la strada. Sì, c'è un uomo in questa città che un giorno si è appostato dietro un cornicione, ha inquadrato nel mirino telescopico questo bambino bruno e gli ha sparato addosso. Un'infermiera richiude la porta e comincia a pulire per terra, con uno straccio, ma senz'acqua. Perché il Kosevo è un ospedale pieno di tragedie e di miracoli, ed è davvéro un miracolo, in'queste condizioni, che siano riusciti a tenerlo cosi pulito. Evitiamo paragoni italici e imbarazzanti, ma qui tutto quello che dipende dagli uomini è in ordine. Un ordine che stride, surreale, con la totale assenza di tutto il resto, a cominciare dalle medicine. «Ce ne servono 105 tonnellate, e ne ab- biamo ricevute soltanto 12», riassume nel linguaggio definitivo delle cifre il dottor Asil Smejkic, il capo supremo del policlinico Kosevo. Parla di cibo che scarseggia e di nuove malattie che si rovesciano inevitabili sulla città assediata: «Abbiamo 246 casi di enterocolite acuta. L'anticamera del colera». Ci porta a prendere una boccata di speranza. Dribblando autoambulanze sforacchiate dai proiettili e sacchi di lenzuola insanguinate, si arriva ad un piccolo caseggiato, pieno di ragazzini e di disegni colorati. E' l'asilo in cui vengono portati i bimbi meno gravi o<prossimi alla guarigione. Sotto lo sguardo implacabile della mamma, tre fratellini giocano a carte davanti ad un enorme televisore spento da mesi, per mancanza di elettricità. Una scheggia li ha colpiti tutti e tre insieme, sei mesi fa, nel quartiere musulmano di Svekopolo. Amar ha una benda sull'occhio, Nasila su un piede e Azir su entrambe le ginocchia. Azir ha tre anni e la scheggia della bomba è riuscita a strappargli un po' di pelle ma non certo la vivacità: dovreste vederlo, mentre se ne va in giro per la stanza a fare danni, strascicando un paio di ciabatte da adulto, lunghe come lui. Lascerà l'ospedale domani, per tornare a casa. Gli altri, quelli che come Adis Ardic a casa con le loro gambe non ci possono tornare più, continuano la lotta per la sopravvivenza: l'òbièttivoimmediato, adesso, è un posto in aereo e un letto all'ospedale: di Ancona. «Li porteremo tutti fuori da questo inferno di sangue», promette il responsabile dell'«Operazione Irma», Patrick Peillod. Ecco, sbrighiamoci, allora. Massimo Gramellini Uno dei prescelti è morto di un tumore Non c'è tempo di avere pietà, perché ora c'è un posto in più per la speranza

Persone citate: Avdic, Omer, Patrick Peillod

Luoghi citati: Ancona, Italia, Kosovo, Sarajevo