GIPO chansonnier in gabbia

la confessione. «Ho fatto una scelta. Prima mi divertivo di più. Chi me l'ha fatto fare? Da sei anni non scrivo niente» la confessione. «Ho fatto una scelta. Prima mi divertivo di più. Chi me l'ha fatto fare? Da sei anni non scrivo niente» chansonnier E| TORINO j qui il vecchio Gipo, nella sede della Lega, in via Cernaia. Locali bianchi, gente svelta, senza ruffianeria, senza torinese «cortesia». Lui, al tavolo, il toscano che non fuma, la camicia azzurra, aperta sul collo e il collo ingombro dei suoi vecchi monili d'oro, quelli che sventolava sulle tavole delle navi in crociera, al suo cabaret con Mina, al Teatro Erba. Vecchio Gipo delle tante canzoni che ci portavano sul Po: Montand, Trenet, Aznavour di Vanchiglia e Lungo Dora, Porta Pila e via Cuneo. Un menestrello grintoso e dalla faccia da Ungerà che piaceva e piaceva. Anche l'indimenticabile Carlo Casalegno, così inappuntabile, risorgimentale, spendeva parole per lo chansonnier subalpino di mala e balera: «Ha una personalità più complessa e ricca di quanto non s'avverta seguendolo in scena, presi dal suo gioco. E' assai più colto di quanto (con una buona dose di civetteria) egli non voglia ammettere». E l'indimenticabile Arpino, di rincalzo, gli urlava dietro ai complimenti del Casalegno: «Gipo è anche il "correre correre" d'una canzone, un "correre correre" che significa: tutto il futuro che possediamo è que~sto presente. Corri e finalmente incontrerai colui che avresti potuto essere». La penultima volta che ho visto Gipo Farassino aveva un coltello in mano. Il coltello, da cucina, era rivolto alla mia gola. Gliene avevo fatta una in più. La prima e più sonora era stata quella di scrivergli un testo con Alberto Gozzi, sul brigante Majno della Spinetta, in italiano. Un musical che fu un «forno» indimenticabile, con il suo pubblico dialettale giustamente esasperato e tradito. Quel coltello alla gola fu la sua resa al sogno di strapparsi da una realtà locale e sicuramente da una mia fastidiosa, velleitaria richiesta di fregarsene del «suo pubblico», piemontese. Dopo quel coltello non ci siamo più visti nella sua grande casa di Pino con la piscina e le auto gagà da corsa. Lassù è sempre così bello? Vecchio Gipo, soma affettuoso, guarda e dice: «Io a Pino non ci sto più. Dopo la rapina, i miei in ostaggio. Toccato nelle qose più intime. Ho bisogno di trovare un luogo. Non è pavesismo. No, adesso vivo in centro. Ma ho bisogno di un luogo mio. Pino, comunque, non era la mia opzione. Lì ci viveva Pierino Novelli. Ci sono stato trascinato da casualità. Il richiamo, vero, che sento, è la Bassa Langa, l'Astigiano. Ho bisogno di borgo, di vita di quartiere». E cosa fai? «Giro come una trottola, vado anche nel Monferrato. Voglio una casa vecchia, voglio quei colori, quegli odori... Agliano, Portacomaro, Montegrosso, Villa Isola. A Montegrosso senti fierezza, ad Agliano allegria Portacomaro è rivierasco; a San Martino Alfieri vedi un mare di stoppie. Cerco un rapporto umano, il piacere di usci re a piedi, andare al bar». Vecchio Gipo, che ti è sue cesso? Eri un «dio» con la chitarra in mano; Cipro, Singapore, Alassio; il tuo vecchio maestro Baudino; le imitazioni di Carosone. Le canzoni struggenti dopo Buscaglione, mentre a Torino, «Los Amigos», cantavano Jannacci e i Gufi, Tenco, e Andreasi infiammava gli studenti di lettere e quelli del Politecnico. Cantavi folk e fiume. La «ca veja» di via Coni e la «profonda boccata» del bocciatore, i «tutti giorni da noi sono uguali / e la noia è il minore dei mali...», «Gente di qui, la poca rimasta. / E' chiusa, testarda, coltiva, caparbia, vigne di freisa». Cristo, come cantavi. Era una fortuna che avevi smesso le navi per Singapore e i night milanesi. Avevi ritrovato la tua terra, dialetto, lingua, Vanchiglia, Porta Palazzo... Avevi il bandolo delle tue radici. Cosa è successo? «Farassino chansonnier è qui dentro, chiuso in un angolo. Certo non voglio finire così. Ma credo a ciò che faccio. E ciò che faccio mi prende diciassette, venti ore al giorno. Ma ho un progetto di fermarmi, cercar casa. E' vero, da sei anni non scrivo più niente. Si può pensare a una canzone, tenerla dentro. Ma per scriverla devi fermarti. E' come mettere ordine in biblioteca». Che cosa hai visto fratello nero, la sua canzone di Senza frontiere, una musica interrazziale, alla Rodari, dove ciò che conta è «lo stesso cielo del mio paese», lo ha bloccato? No, dice il Farassino, mentre i telefoni suonano. «Ho cantato ancora quando siamo andati a Roma, l'anno passato. Me lo chiedevano i posteggiatori di Trastevere. E poi continuo a far tea¬ tro, devo vivere e far vivere la mia famiglia. I figli se ne sbattono i coglioni delle scelte del padre e vogliono andare in Grecia. Cantare vuol dire metter su un'orchestra. E' complicato». Vecchio Gipo, tenero e caparbio. Non lo vuol ammettere ma la Lega pesa. Dov'erano, Gipo, le tue estati di una volta? «In mare: Corsica, Sardegna, Elba, Costa Azzurra. Ce ne andavamo in barca con moglie e bambini, una cameriera. Mi facevo le mie serate dai porti. In porto a Antibes? Col treno scendevo in Riviera. Era la libertà senza radici, non vedevi terra. Andavamo a Saint-Tropez». E adesso? «Avere un paese. Sentire una festa. Stare nel plasma. Ghignare insieme, ghignare con niente. Quel plasma ti rigenera, ci stai bene dentro». «Voglio tornare / a vivere fra gente / che quando parla/non ti chiede niente...». E' questo, vecchio Gipo, che ti ha fatto smettere di cantare e fare quella «brutta cosa» che oggi si chiama politica? «Mi piacciono i sentimenti, ma senza retorica. Se li trovi: bene. Slegarsi dai vecchi paracarri. Cercare valori. Avere curiosità. Sai, la Lega oltre a essere un borgo è qualcosa che indaga nella cultura etnica, nei valori di fondo. Vuoi sapere perché sono leghista?». Gipo di quando eri «anarchico» e contro, di quando cantavi: «Vorrei tornare al paese / che un giorno ho lasciato con tante pretese / ma ho sposato lo sguardo impotente / la faccia morente di questa città». «La gente lo sa che deve pagare le tasse. Ma vuol fuggire dalla burocrazia, dalla putredine. Bisogna reinvestire, abbandonare l'assistenzialismo della corruzione». Vecchio, adorabile Gipo, dove sei? Ti sentivamo anarchico, di sinistra. E ora sei leghista... «Sento un peso. Porto un peso. Vado nei paesi e trovo difficoltà a farmi accettare. Pavese, ricordati, è un professore che torna in piola... C'è un irrigidimento, nei miei confronti. Non parli più il loro linguaggio anche se c'è sintonia. Per questo io vorrei scendere. Vorrei smettere. Vedo persone che conoscevo vent/anni fa. Per loro sono un altro. Loro sono troppo ingenui, io troppo smaliziato? Ma cos'è meglio: io allora o io oggi?». E' un duro il vecchio Gipo. E' un testardo, nella gola e nel passo. Ma lì, seduto nella bianca sede di via Cernaia, fra gagliardetti e foto di gruppo (Bossi & C), Gipo accarezza le sue melanconie, i desideri di fuga. Dice: «Venirsi incontro. Il lusso di incazzarmi lo pratico solo con me stesso. Non sono sentimentale. Ma ho fatto una scelta. E' una scelta. L'ho fatta. Prima mi divertivo di più. Chi me l'ha fatto fare? Cantavo, bevevo, mangiavo...». Già, chi gliel'ha fatto fare? Quella villa in collina, gli applausi del pubblico e dell'intelligencija locale. Cioè: dai repubblicani al pei, erano tutti con il Gipo di via Cuneo. E poi? Cos'è accaduto? «Un disagio civile. Ti ci trovi dentro. Eravamo in venti in Piemonte. Ascolta ciò che è accaduto». Non sono sordo, amico Gipo. Ciò che mi colpisce è che tu abbia smesso di cantare. «Discutere con gente dell'università? Parlare di politica, di economia? Questa è stata la mia sorpresa. Ma sì, c'è una ragione. Ho fatto teatro. E volevo uscire dal teatro, dalla finzione. Volevo mettermi a repentaglio, giocarmi l'incolumità fisica». Dalla finzione alla realtà? «Il politico l'avevo in pectore. E' stata l'indignazione. Certo non avrei mai pensato che sarebbe andata così. Qui in Piemonte, all'inizio eravamo in venti. E io volevo uscire dalla metafora letteraria...». «Partirò, partirò, partir bisogna / cacciando in fondo al cuore la vergogna / di appartenere al gregge muto e vile...». E' andata così, Gipo? Sorride il Gipo fra gagliardetti di Lega, «di lotta e di governo», foto con Bossi, il tivù acceso, il toscano spento che va da una mano all'altra. Te lo sei sentito duro anche tu, come il Bossi? «Quel suo modo di parlare è teatralità. Lo capisco. Dice "gabina", è un effetto. Nei movimenti autonomisti guai se abbandoni il linguaggio della base, il collante che tiene uniti». «Voglio tornare / a vivere fra gente / che quando parla / non ti chiede niente». E' così, Gipo? «Sì. E mi sono preso il lusso di incazzarmi». Il lusso di incazzarsi non l'ha mai smesso, sanguigno com'è. Prima ancora di recitare Signor ministro, perché lei sì e io no?, dove un ragioniere viene riverito e coccolato per i suoi presunti furti. Era il '74. Prima, coi blagheur di Porta Pila, dove «la strada è scuola di vita», con Simun, capace di «piantare con un pugno un chiodo nel muro», con Sala il cattivo, con Nussent lo schivo. Personaggi di un'epica spicciola e popolare. Un duro dal cuore morbido, da sempre con un rapporto di amore-odio per Torino. Città dalla quale non ha mai voluto andarsene, per la quale ha rinunciato a carriere e tournée: «Turin, l'avrass mila rasun, ma t'iass rumpume i coijon». Anche se oggi questo bisogno di terra e di radici campagnole sembra sincero. Il vecchio leone di barriera è stanco. «Le voci dei padri / martellano lente nei loro ricordi: / la terra è la terra». Ma una parentesi non te la fai? Con questo caldo? «Me ne vado a dormire a Laigueglia. Ai bagni Molo, mi porto due libri, Miglio e Bocca. Dormo e leggo. La notte guardo vecchi film. Ormai mangio e bevo poco: il corpo si difende». Ride, la faccia da vecchia Ungerà. Quella che tirava fuori sul palco quando cantava «E a me mi girano, girano», o «Ah! che borgh anvelenà.../ Ma l'è '1 borgh andoa son nà...». Vecchio Gipo di parola lesta, teatrante di strada. Ancora in palcoscenico. Nico Orango «Il politico l'avevo in pectore. E' stata l'indignazione» «Qualcuno pensa che sono un altro. Ma cos'è meglio: io allora o io oggi?» RACCONTI D'ESTATE Nella foto grande Gipo Farassino con il sigaro in bocca e la camicia aperta sul collo, nella sede torinese della Lega. In alto è con Umberto Bossi. Qui a lato nei panni di cantante in una immagine ] di molti anni fa. «Farassino | chansonnier» dice «è qui dentro, chiuso in un angolo. Certo non voglio finire così. Ma credo a ciò che faccio» Fred Buscaglione. L'estate, per Gipo, è «avere un paese. Sentire una festa. Stare nel plasma. Ghignare insieme, ghignare con niente» Cesare Pavese. Dice Farassino: «Nel paesi trovo difficoltà a farmi accettare. Non parli più il loro linguaggio anche se c'è sintonia»