Addio alla rotonda sul mare Si balla il rap di Cosa Nostra
Addio alla rotonda sul mare Si balla il rap di Cosa Nostra Addio alla rotonda sul mare Si balla il rap di Cosa Nostra spili LA COLONNA SONORA DEGLI ANNI 90 SONO passati trent'anni, ma la rotonda sul mare con i suoi miti e riti - in qualche modo resiste; resistono Fred Bongusto e Nicola Arigliano, Franco «Califfo» Califano e Peppino Di Capri. Gli antichi eroi del ballo cheek to cheek continuano a scorrere senza soste l'Italia vacanziera, regalando brividi e sussurri a coppie innamorate e non necessariamente sopra i quaranta. A Roma, addirittura, si sono inventati un «villaggio Sixties» dove ogni sera cantano gli eroi del «doce doce», della canzone felpata, del night: da Jimmy Fontana a Riccardo Del Turco, quello che «luglio, col bene che ti voglio». Ma il revival - e pure la moda del valzerone di mezzanotte, lanciata da qualche disc-jockey in cerca di novità - ai kids degli Anni Novanta piace in quanto revival, tanto per giocare: una sera e basta, per carità. Poi si va in discoteca. O al rave, che è una discoteca alternativa e segreta, un posto in campagna, una fattoria abbandonata, un capannone, dove scatenarsi fino a giorno fatto con house, tedino, rap. Battono forte, le notti d'Italia: i soliti deejay d'avanguardia fanno i sostenuti e lamentano che non c'è più nulla da inventare, però i ragazzi sembrano divertirsi un sacco. Basta poco, in fondo: il verbo di Fiorello ha fatto proseliti dall'Alpi alla Sicilia, e ormai ballare è diventato per certuni un optional, un'eventualità come tante. Anche il locale più tristo e dimenticato promette interminabili notti di karaoke, tutti in fila sotto il palco aspettando di vivere tre minuti da protagonisti, cantare una canzone con una base musicale vera, con un microfono vero, persino con gli applausi veri e tolleranti degli amici che, è noto, si riconoscono nel momento del bisogno, ovvero della stecca. Trent'anni fa c'erano i locali «giusti», dove pure la musica sembrava - era - scelta secondo altissimi criteri di bon ton; e quelli un po' così, dove capitava pure di ascoltare il temibile rock'n'roll. Oggi alla «Capannina» di Forte dei Marmi passano gli stessi dischi, e la pista è illuminata dalle stesse luci stroboscopiche, che imperversano nei danzifici della riviera romagnola. E ci trovi la stessa gente, perché il popolo della notte ormai va al «Covo» di Santa Margherita indossando gli stessi stracci - odiati da mammà - che metterebbe al «Cocoricò» di Riccione. Come usare la stessa giacca per un pranzo all'ambasciata e per una gita in campagna. E poi c'è il rap, la musica che ha unito le due anime del popolo della notte: i «nati per ballare» (quelli che una volta venivano definiti «travoltini») e gli altri, gli alternativi, quelli che «la discoteca, che posto idiota». L'estate scorsa era ancora una musica un po' misteriosa e perniale, il rap: cattivo e trasgressivo, era perfetto per i rave ma in una discoteca «normale», frequentata dai ragazzini del Forte o di Alassio, sembrava un po' un azzardo. Quest'anno, capita di ascoltare le ferocissime invettive del Sud Sound System - «mafia business controlla lu Salente, mafia business controlla il Parlamento» - dagli stessi amplificatori che dodici mesi fa sparavano a tutto volume Madonna e gli 883.1 quali 883 imperversano comunque con «Nord Sud Ovest Est», il loro nuovo tormentone estivo: stessa idea musicale della famigerata «Hanno ucciso l'uomo ragno», con un'insaporitura «latina», oggi di rigore. Eh già: dai e dai, Gianni Mina e tutti i profeti del «ritmo brasileiro» hanno avuto ragione, e da Cortina a Viareggio, da Riccione a Capo Rizzuto, non c'è deejay che s'azzarderebbe a chiudere una nottata senza una mezz'oretta di salsa, merengue e axé. Però la voglia sudamericana ha lo stesso profumo - e magari le stesse motivazioni - delle serate Anni Sessanta: è l'eccezione, non la regola. La regola la dettano le posse: battito «urbano», campionature, e canzoni scandite come slogan. Anche se è vecchiotta, capita spesso di riascoltare «Lu sole mio» di Papa Ricky, il cuoco-rapper leccese che Salvatores ha voluto per la colonna sonora del suo nuovo film «Sud». E nelle discoteche con presunzioni d'avanguardia risuona pure lo sberleffo della Lion Horse Posse, la posse del milanese Leoncavallo, che inneggia al fumo (non di sigaretta) prendendosela con Craxi («Occhio panzone che sei circondato, fuma Bobo fuma Claudio, fuma anche tuo cognato»). Storie antiche, direbbe Pierfrancesco Loche. A proposito di Loche, anche l'Avanzi Sound Machine ha fatto i suoi bei danni, in questa cal¬ da estate: «Muco», nella pregevole esecuzione di LorenzoGuzzanti, e la corale «Laico Reggae», stanno nelle zone calde degli hit. Peraltro quelli di Avanzi hanno smascherato il facile giochino del rap commerciale, prendendo per i fondelli - con «Cemento» - le posse fasulle. Ora, una posse sarebbe una cosa seria: un gruppo di musicisti «allargato» - qualcosa di più di un complesso, qualcosa di meno di un collettivo politico - che vive e lavora insieme. Ma in discoteca prevalgono i prodotti più orecchiabili, dal «Public Prosecutor» ottenuto campionando gli interrogatori di Di Pietro trasmessi in tivù, al motivetto «Tangentdance» che ripete senza posa «come fai come fai, che in galera non ci vai? / Grazie a te, grazie a te, che hai votato anche per me / Ruba a me, rubo a te, rubo tutto quel che c'è». E' pur vero che quello del rap è un mondo strano, dove i talenti si bruciano in fretta, specie se tentano l'improbabile salto dall'underground al «giro grosso». E' capitato ai Pitura Freska, in declino dopo aver aperto la strada al reggae in veneziano con «Na bruta banda» e «Fin Floi». Oggi i puristi gli preferiscono i concittadini Radio Rebelde, meno contaminati - pare - dalla «lebbra del business». D'altra parte, che cosa pretendete? Non si vive di solo impegno: e men che meno d'estate. Per ogni rapper furioso, il saggio deejay romagnolo sa di dover ammannire ai suoi seguaci almeno una dozzina di motivetti ballabilissimi, dal tormentante «What is love» degli Haddaway alle sbornie di elettronica propinate da gruppi dai nomi improbabili, inventati lì per lì in sala d'incisione, e destinati a durare lo spazio di un disco. Destino, questo, che accomuna gli effimeri protagonisti musicali dell'agosto '93 a quelli di trent'anni fa: anche allora i cantanti da spiaggia svaporavano con le prime piogge di settembre. Dov'è imito Piero Focaccia, che nel '63 con «Stessa spiaggia stesso mare» diede il definitivo ritratto dell'Italia in vacanza? E Franco I e Franco IV, quelli di «Ho scritto t'amo sulla sabbia»? Persino i «giganti della spiaggia» - i Fidenco, i Vianello, i Tessuto - oggi vivacchiano sull'onda della nostalgia, del «come eravamo». E qualcuno, pur di tornare a galla, sbraca: il povero Califano ha annunciato che inciderà un disco rap. E di «dura denuncia». Si salvi chi può. Gabriele Ferraris Dominano le canzoni contro i politici o sulla «mafia che controlla il Parlamento» Qui accanto Fred Bongusto Sopra, la nuova tendenza del ballo
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