Sarajevo: bombardate per salvarci dell'incubo

Sarajevo: bombardate per salvarci dell'incubo Sarajevo: bombardate per salvarci dell'incubo NELLA CITTA' SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO Con il coraggio dei disperati, Sarajevo invoca le bombe della libertà. Costretta a scegliere fra due terrori, la città prigioniera si aggrappa a quello più traumatico, nella speranza che sia risolutivo. Certo, gli aerei di Clinton fanno paura, e soprattutto fa paura il «dopo», la reazione dei carcerieri serbi appollaiati sulle colline. Ma per questa gente allo stremo, che cammina per strada ballando nei calzoni, qualche notte passata in cantina a chiudere gli occhi e pregare forte è prospettiva preferibile ad un altro inverno d'assedio, il capolinea dell'agonia. «Occidentali, bombardate». Adesso non lo chiedono più soltanto Izetbegovic e i suoi generali. La parola d'ordine si diffonde, entra negli uffici dell'opposizione, dentro le chiese, nei ritrovi degli intellettuali. Andiamole dietro, cominciando dalla «Casa dei Partiti», il palazzaccio al numero 7 della Titova, in cui abitano le segreterie di tutti i gruppi politici, di maggioranza e di opposizione, che si guardano in cagnesco dalla tromba delle scale. Il capo degli anti-governativi di Sarajevo ha una scrivania al terzo piano e la camicia stirata, evento rarissimo in questa città senza luce né acqua. A soli 35 anni, Hasib Salkic è il leader del partito liberale bosniaco, appena uscito dal governo per protestare contro la sterzata nazionalista del presidente Izetbegovic. I due litigano su tutto, tranne che sulle bombe. Anche Salkic le considera inevitabili: «I serbi si fermano solo con la forza. E' l'unico linguaggio che capiscono». Già, ma quando gli aerei della Nato torneranno a casa... «La rappresaglia serba fa parte del gioco. Colpiranno Sarajevo, è sicuro. Ma già adesso, in città, abbiamo 15 morti al giorno». Gli chiediamo se è proprio sicuro che i cittadini di Sarajevo la pensino come lui. Abbassa gli occhi, e la voce: «I cittadini di Sarajevo vivono da un anno al livello più basso di qualunque altro abitante di un Paese civilizzato. Vogliono la pace e la libertà. Vogliono riabbracciare i parenti lontani e tornare a lavorare. Ma perché tutto questo avvenga, purtroppo, ci vogliono le bombe. Noi non le abbiamo, voi sì: aiutateci». «La gente è in ogni modo davanti alla morte: non c'è molta differenza fra morire di fame o sotto le bombe». Alla fine di ogni frase, il giovane arcivescovo di Sarajevo fa una pausa e sorride. Spilla un bicchiere di acquavite dalla piccola botte appoggiata sotto il quadro del Papa. Ne ha viste troppe, monsignor Vinko Pulic, dietro quegli occhiali troppo grandi. «L'intervento occidentale? Il mio popolo ha sofferto troppo per poter dare risposte normali. Abbiamo perso l'equilibrio psichico, perché da un anno e mezzo viviamo in una prigione. Riflettere è difficile». Il Papa ha detto... «Lo so cos'ha detto, il Papa...», e alza gli occhi verso il ritratto sulla parete. «Io credo che chi ha il potere di arrestare il male ha il dovere di arrestarlo. Se la comunità internazionale ha proclamato i diritti dell'uomo, poi deve anche difenderli. Ogni legge prevede una sanzione. Anche la legge di Dio... Se siamo arrivati a questo punto è perché finora il mondo ha tollerato la legge del più forte. Ma quando succede questo, è l'inizio della fine di una civiltà». li vescovo allarga sul tavolo una cartina della Bosnia. «Prima della guerra avevo 150 parrocchie. I serbi ne hanno conquistate un terzo: chiese distrutte, gente uccisa o sfollata, opere d'arte oltraggiate e archivi bruciati, perduti per sempre. Poi hanno cominciato i bosniaci, attaccando altre trenta parrocchie. Questo vescovado ha 900 anni e sta scomparendo. Ma a Sarajevo ci sono ancora 30 mila cattolici, un cittadino su 10. Ai negoziatori di Ginevra ho mandato un solo messaggio: decidete come volete, ma non cancellateci da questa cartina». Il quadro che traccia sarà anche di parte, ma è drammatico: «A Sarajevo i diritti dei cittadini non musulmani stanno scomparendo. Parlo di tolleranza e vengo umiliato per la strada. I cattolici vengono licenziati dai luoghi di lavoro, alcuni insegnanti diffondono l'odio razziale nelle scuole, e temo che gli agenti del governo ci discriminino nella distribuzione degli aiuti. Di sicuro, ho le prove che 65 casse di carne spedite dalla Caritas sono state prese da questi agenti, fra i quali non vi è né un croato né un cattolico. Nessuno ci protegge dai ladri, dai banditi, dagli approfittatoli. E questa pressione dura ormai da troppo tempo. La gente vuole la pace, ma la pace adesso è in mano ai politici. Il problema è che chi ha creato la guerra non può creare la pace...». Monsignor Pulic avrebbe potuto lasciare Sarajevo, come tutti gli altri leader religiosi hanno fatto da mesi. E' rimasto. «Non si può capire questa città vivendo altrove», ripete sorridente. Ecco, secondo lui, un'ottima alternativa all'intervento armato: «I negoziatori lascino Ginevra e vengano a trattare qui, a Sarajevo. E nessuno lasci la città prima della fumata bianca, come in un conclave. E' troppo comodo fare i grandi diplomatici sul lago. Vengano a farlo qui, senza luce né legumi da mangiare. Chissà perché, ma ho l'impressione che negozierebbero in modo diverso». Si congeda con un ultimo sorriso, mentre dietro la porta c'è una fila di persone semplici che aspettano di vederlo, per tendere la mano. Al Teatro Kamerni, si recita al lume di candela. E' un dramma, e sembra una messa nera. Nel bar dietro il palco, uno dei pochi aperti in città, gli artisti di Sarajevo fanno la fila per un caffè accettabile. Il cartello appoggiato alla cassa dice: «Hello, l'm stili alive». Sì, ancora vivi, malgrado tutto. Il regista Bato Cengic non assomiglia più alle foto d'archivio, scattate ai tempi del suo film «Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale», che gli è valso premi all'estero e platee esaurite in patria. «In un anno ho perso venti chili, ma non me ne pento, perché sono diventato più duro, più calmo. Per un intellettuale di Sarajevo esistono due tipi di asilo: Kusturica ha scelto quello reale, andandosene all'estero. Non lo condanno. Ma io ho preferito isolarmi qui, a casa mia, con il mio umorismo che non se ne va nemmeno adesso, perché la vita mi fa ridere, anche nel dolore. Come quel giorno che stavo passando in un cimitero, i cecchini sparavano e io mi sono nascosto dietro una tomba per rimanere vivo. Bisogna saper guardare con umorismo a tutto. Penso, ad esempio, agli aiuti umanitari...». E alle bombe americane? «Intanto sarebbero bombe dell'Orni. E poi io non sono un politico, sono un artista. Non chiedetemi risposte nette e soprattutto chiare... Vi dirò questo: ho visto un soldato dell'Orni giocare a pallone insieme a dei ragazzini, l'altro giorno; nell'eccitazione, si era dimenticato di posare il mitra, sarà per questo che gli lasciavano sempre fare gol. Poi ho visto una foto, in cui i serbi giocano a pallone con la testa di un uomo. Questo significa qualcosa, no? Sono violenti, siamo violenti, e temo che diventeremo anche peggio, noi che abitiamo nei Balcani. E' la storia che ci ha insegnato ad essere così. Noi portiamo il male con noi, nei vostri Paesi. Siamo gli spostati d'Europa». Non scherza più, adesso. Fuori, per fortuna, c'è il sole e si spara un po' meno del solito. Dicono che sul monte Igman continuino le discussioni fra serbi, bosniaci e Caschi Blu. E finché si discute, non si bombarda. «Meglio così, no?». L'ultima voce di Sarajevo è quella di una donna, giovane architetto che ha imparato il mestiere a Roma, nello studio di Giovanni Rebecchmi. Si chiama Liliana Seleucic e sta lavorando ad un impianto di purificazione, dell'acqua. «Fra bombe ed assedio, cos'è meglio? Andarsene. Andarsene via. Ma come si fa? Ho una madre serba e un padre croato, morto l'anno scorso di infarto durante un attacco aereo. Cosa volete che ne sappia io di religioni, razze, pulizia etnica? Cosa c'entro io con questa guerra? Nulla, eppure eccomi qua. Prigioniera di Sarajevo». Massimo Gra meli ini

Persone citate: Clinton, Giovanni Rebecchmi, Izetbegovic, Kusturica, Pulic, Salkic, Titova, Vinko Pulic