Nel carnaio del Tagikistan di Foto Ansa

Nel carnaio del Tagikistan «Comunisti» contro «islamici», ma dietro le etichette s'intravedono solo faide tribali Nel carnaio del Tagikistan Centomila morti senza un perché NUOVE FIAMME SUL CONFINE D'AFGHANISTAN SDUSHANBE' OLDATI russi dall'aria sperduta bivaccano all'aeroporto in attesa di un posto per tornare a casa. Il coprifuoco comincia a mezzanotte per finire alle cinque del mattino. Ma la capitale del Tagikistan si spegne già alle otto di sera. I semafori scandiscono il tempo in tre colori con una precisione insensata e inutile. Sono entrato in un Paese sovrano, in guerra con se stesso, senza neanche mostrare il passaporto. Il taxi ci porta a tutta velocità, nelle strade già deserte, in un albergo immerso nella penombra, il cui terzo piano è interamente occupato dall'ambasciata turca, l'ottavo dai coraggiosi giovani di «Médecins sans frontières». Nell'altro albergo decente di Dushanbè, l'Ottobre (che era l'hotel del Comitato centrale del partito) sono alloggiati l'ambasciatore russo e quello americano, insieme all'Alto commissariato dell'Orna per i profughi. Troppo «alto», forse, per sapere come stanno le cose laggiù in basso, a Sud, dove i profughi tagiki, fuggiti l'inverno scorso in Afghanistan per scampare alle vendétte della guerra civile, stanno tornando alla spicciolata alle'lóro case distrutte dal fuoco e dalle bombe. Un funzionario che parla solo inglese ci comunica spaurito che non si può raggiungere Kurgan-Tiubè, il capoluogo della regione dove si sono verificati i combattimenti più sanguinosi. «Vi fermeranno - dice - i posti di blocco. Ce ne sono a decine». L'indomani mattina partiamo lo stesso. Ma non ci ferma nessuno. 180 chilometri per arrivare a Kurgan-Tiubè e per vedere le decine di villaggi rasi al suolo, l'orribile edificio dei bagni pubblici del sovkhoz Turkmenistan dove - ci raccontano quattro giovani accovacciati nell'ombra dei salici - centinaia di persone sono state torturate e uccise. Da chi? Pare che siano stati gì'«islamici», nel breve periodo in cui hanno tenuto il potere, l'anno scorso. «Sentivamo le grida dei torturati notte e giorno, c'era da impazzire». Ma poi si scopre che i torturatori erano i vicini di casa. «Vede, uno abita va lì». La casupola è adesso un cumulo di rovine annerite dal fuoco. Sono scappati tutti in Afghanistan, quando è cominciata l'offensiva dei «kuliabi», quelli che le agenzie occidentali, per semplificare, definiscono come «comunisti». Ma, vista da vicino, questa rappresentazione di «comunisti» da una parte e «islamici» dall'altra fa acqua da tutte le parti. Nelle stanzette per la sauna nella «casa dei bagni pubblici» le chiazze di sangue rappreso, i segni delle sventagliate di kalashnikov sulle pareti, parlano di una tragedia che è troppo semplice definire in termini ideologici. Hanno bruciato e torturato «quelli di Garm» e hanno bruciato e ucciso «quelli di Kuliab», a turno. Quanti sono stati i morti? Le valutazioni delle parti non si discostano di molto: non meno di centomila persone. Cambia solo il vettore delle accuse: «colpa degli altri». Andiamo oltre, in un altro girone di questo inferno asiatico. Vecchi che si aggirano tra le rovine. L'inverno si avvicina e non c'è un tetto per coprirsi. «Coltiviamo l'orto e vendiamo al mercato. Altre fonti di sostentamento non ne abbiamo. Materiali da costruzione non ci sono». E basta guardare i fianchi spogli delle montagne per capire che il legno è tremendamente caro. L'uomo, dal caratteristico cappello tagiko, ha un'età indefinibile. Fuggito al Nord anche lui alle prime avvisaglie di guerra, «con i bambini in spalla», e tornato da poco. Non sa chi gli ha bruciato la casa, non si pronuncia, ha paura. Altri cinquanta chilometri e raggiungiamo Kolkhosabad. Tornano i profughi, e portano con sé, insieme alle sofferenze, anche il colera. A Dushanbè il responsabile degli osservatori dell'Orni, Liviu Bota (detto per inciso, uno dei pochi che conosce la situazione nei dettagli) ci aveva fornito i primi dati; nelle zone meridionali le autorità hanno censito 148 casi. Ma nell'ospedale di Kolkhosabad il dottor Issokhon Grezov rifiuta ostinatamente di confermare. «Non posso violare le disposizioni statali». Solo dietro insistenza - e dopo una tempestosa telefonata al ministero della Sanità di Dushanbè - conferma che nel suo reparto malattie infettive ci sono 24 ricoverati. Che vengono da «quasi tutte» le imprese agricole del distretto. Cosa fate per combattere l'epidemia? Allarga le braccia con composta filosofia: «Consigliamo di usare solo acqua bollita. Medicine non ne abbiamo». E ci sconsiglia di proseguire oltre. «Siete in zona a rischio dice calmo -, da domani mettiamo la quarantena. Il che significa che chi rimane dentro non può uscire. Ci vogliono almeno cinque giorni per i controlli». L'obiettivo di arrivare fino a Piandzh, sul confine afghano, centro del focolaio epidemico, dev'essere abbandonato. Facciamo marcia indietro, anche perché l'autista s'impunta. A Kurgan-Tiubè c'è un personaggio leggendario che bisogna visitare. Il colonnello Evghenij Merkulov, della 201a divisione russa. Fu lui, con soli 70 uomini, a difendere l'avamposto quando le fazioni si scontrarono a dicembre. E nel perimetro della base di Turgan-Tiubè c'erano diecimila civili, donne e bambini, da proteggere. Resistette per 40 giorni. Adesso ha le pastiglie contro il mal di cuore sul tavolo e una medaglia al valor militare sul petto. E' qui da cinque anni. Perché? «Se ce ne andiamo la nazione tagika sarà spazzata via. Noi non siamo qui per difendere il presidente Rakhmonov (il temporaneo vincitore, rappresentante della regione di Kuliab, ndr). Noi non siamo qui per liquidare una fazione a vantaggio dell'altra. Cerchino i politici di mettere d'accordo questi clan. Ma vorrei che a Mosca si rendessero conto di quello che succede. Questa non è una guerra, è un massacro biblico. Non c'è differenza tra combattenti e civili. Lo sterminio dell'avversario è la regola: per evitare la vendetta dei figli, dei parenti. Non deve sopravvivere nessuno...». Nel cortile, sotto il sole, c'è l'appello dei volontari - ancora in abiti civili - appena arrivati da Mosca per rimpolpare i ranghi della 20la. Un centinaio di facce dure, senza sorriso. Molti sono ex «afghani», sui 25-30 anni. Gente con la sindrome di «Apocalypse now», che non riesce a dimenticare la propria esperienza di guerra e che viene qui sapendo che dovrà combattere ancora. Giovani che non trovano lavoro nella nuova Russia. Ma anche patrioti che - come il biondissimo Serghei - «sono qui per difendere gl'interessi dei russi». A 80 mila rubli al mese, più o meno. 80 dollari. Più una serie di privilegi: ferie pagate, cure gratuite per sé e le famiglie, esenzioni fiscali ecc. «Non ci servono reclute - Merkulov soppesa i nuovi arrivati con aria esperta -, occorre gente dura, che sa usare le armi. Eppure so già che molti non reggeranno. Sul confine si arrostisce, le zan- zare ti mangiano vivo, l'allerta è continua». Ho ancora negli occhi le immagini dei sedici ragazzi rapati a zero usciti vivi dal massacro del 12° avamposto delle guardie di frontiera. La tv russa ha mandato in onda - ripreso da un operatore militare - il momento della loro salvezza, dopo 16 ore di assalti furibondi in cui hanno perso la vita 25 commilitoni. Tutti sotto choc, piangenti per la paura, ancora increduli di essere vivi. I soccorsi sono arrivati tardi, troppo tardi. Merkulov scuote la testa. Lui avrebbe saputo come fare. Ma per ora la 20 la non è stata impiegata sulla frontiera. Lo sarà presto. Intanto a Dushanbè continuano a atterrare i rinforzi, le salmerie, armi e munizioni. Mosca ha capito, in ritardo, che questa frontiera o è la sua o di nessuno. Ritirarsi da questi 900 km, segnati in gran parte dalle gole vertiginose del fiume Piandzh, significa, molto presto, dover costruire una nuova barriera lungo i 1800 km della frontiera uzbeka, e poi lungo i 3000 km di quella kazaka e kirghisa. L'ondata islamica preme irruenta e confusa. Il problema è fermarla prima che diventi incontenibile. L'Afghanistan non esiste più come Stato. Kabul non controlla le bande di mujaheddin che hanno vinto la guerra con i sovietici. Il tagiko Ahmad Sha Masood e il presidente Rabbani combattono contro il pashtun Hekmatyar. L'uzbeko generale Dostum controlla solo una parte del Nord dell'Afghanistan. E a 500 chilometri dal 12° avamposto, a segnare i contorni del «tetto del mondo», lungo le vallate del Pamir s'intrecciano, in un puzzle che solo l'incubo colonialista poteva concepire, le frontiere dell' Afghanistan, della Cina e del Pakistan, dell'India e della Kirghizia. Se salta questo nodo nessuno sa che cosa potrà accadere. Ieri Eltsin si è detto «molto soddisfatto» del vertice sulla situazione alla frontiera tra Tagikistan e Afghanistan tenutosi sabato scorso a Mosca tra i dirigenti russi e quelli delle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, e ha annunciato che gli Stati partecipanti invieranno ciascuno un battaglione a presidiare il confine tagiko. Questi uomini, ha aggiunto Eltsin, porteranno un casco blu e opereranno come una forza di pace internazionale. Il presidente russo ha detto, ottimisticamente, che dopo il vertice «la calma è tornata alla frontiera». Giuliette Chiesa N Per prevenire le vendette si sterminano le famiglie E imperversa anche il colera Il generale dei russi «Questa non è una guerra E' un biblico massacro» Nella foto piccola a sinistra un combattente tagiko Sotto, i russi catturano un afghano alla frontiera Accanto, il riposo di un guerriero [foto ansa]

Persone citate: Ahmad Sha Masood, Dostum, Eltsin, Evghenij Merkulov, Giuliette Chiesa, Hekmatyar, Liviu Bota, Rabbani, Rakhmonov