La follia, ultimo nemico di Sarajevo

La follia, ultimo nemico di Sarajevo La follia, ultimo nemico di Sarajevo Per gli psichiatri «l'intera città dovrebbe essere ricoverata» LA SINDROME DELL'ASSEDIO aSARAJEVO UANDO camminano per le strade, hanno lo sguardo un po' fisso. Non si affrettano nemmeno mentre attraversano le zone pericolose segnalate dai cartelli: «Attenzione, cecchini». A volte, senza ragione apparente, qualcuno di loro si mette a correre come se fosse preso dal panico. Sono terrorizzati, disperati. Vorrebbero la pace «a qualunque prezzo». Altri, all'opposto, partono verso il fronte. Scaricano le loro armi e lanciano urla contro un nemico invisibile. Si dicono «pronti a battersi fino alla fine». I primi, i depressivi, sono i «pazzi a causa della guerra». I secondi, gli aggressivi, sono i «pazzi per la guerra». Tutti sono vittime della battaglia scatenata contro le città assediate della Bosnia, che lascia ferite invisibili, ma che a volte possono essere mortali: quelle inflitte nei cervelli. «Ogni giorno la violenza aumenta. La gente non può più esprimere sentimenti normali. A volte l'aggressività è rivolta verso se stessi; a volte contro gli altri», spiega il responsabile del servizio psichiatrico dell'ospedale di Sarajevo, il dottor Ismet Ceric. Nella capitale assediata, gli «aggressivi» non sono ricoverati in ospedale. Sono considerati «normali». Alcuni di loro, che hanno perduto la loro donna, gli amici, la famiglia, «non hanno più nessuna ragione di vita, salvo la vendetta», spiega Liliana Oruc, psichiatra dell'ospedale Nedo Zec. E' alla fine del conflitto che i <<pazzi per la guerra», gli «aggressivi», avranno dei problemi, come è successo per i reduci americani dal Vietnam. Essi compongono, insieme agli idealisti e ai profittatori, lo zoc¬ colo duro di coloro che rifiutano ogni negoziato. Per ora, i comportamenti depressivi rappresentano la maggior parte dei casi trattati dagli ospedali psichiatrici di Sarajevo e di Bihac, la sola enclave musulmana della Bosnia occidentale. In quest'ultima città le psicoterapie individuali o di gruppo sono aumentate del 40 per cento. «Non abbiamo la possibilità di accogliere tutti racconta, a Sarajevo, il dottor Oruc -. Negli ultimi tre mesi abbiamo potuto ricoverare solo 150 persone, ma trattiamo diverse migliaia di casi con consultazioni esterne. Ma sarebbe l'intera città di Sarajevo ad aver bisogno di un ricovero. Tutti soffrono di qualche disturbo psichiatrico». Paradossalmente, gli unici ad essere rimasti «normali», sono i vecchi pazienti, i «pazzi» tradizionali. Loro non capiscono cosa sta succedendo. L'ospedale si trova a 600 metri dalla linea del fronte, in una zona ritenuta pericolosa e molti hanno paura a recarsi dagli psichiatri. Ma il dolore mentale e la disperazione sono tali «che essi mettono a repentaglio la loro vita pur di venire qui», spiega il capo del servizio psichiatrico. Secondo gli psichiatri, a Sarajevo la guerra ha caratteristiche inconsuete, uniche: «Gli assediami utilizzano tutte le armi psicologiche per fiaccare la psiche dela popolazione. Non uccidono solo per uccidere, ma per terrorizzare il resto della popolazione». Prima ancora della morte, il primo choc è stato legato ala natura «etnica» della guerra. «Molti non sapevano e non sanno neppure ora chi è serbo, chi musulmano, chi croato. Per molto tempo noi abbiamo voluto vivere nell'illusione. Ed è duro ammettere la realtà: anche i nostri amici possono ucciderci. E questo è uno choc psicologico enorme», racconta il dottor Oruc, «con il 47 per cento di matrimoni misti a Sarajevo, nessuno ha più le idee chiare nemmeno su se stesso. Non ci si fida più degli altri e si sviluppa la paranoia». Dopo lo choc affettivo, c'è il terrore dei bombardamenti. L'insicurezza totale mina la salute mentale della popolazione. A meno di rimanere chiusi in un rifugio, senza luce, ognuno si sente minacciato in ogni momento. Ciò che rende pazzi gli abitanti non è solo la paura, ma anche l'umiliazione: la sensazione di essere osservati, spiati, di essere alla mercè di un nemico nascosto. «Viviamo come se fossimo selvaggina», dice un professore di sociologia. Camminando, compie traettorie strane, percorsi senza logica, con scarti improvvisi per disorientare eventuali cecchini. Solo i bambini sembrano non sentire questa situazione di pericolo, che può concludersi con la morte. Come quel bambino di sette anni che è rimasto immobile, impassibile, mentre un proiettile ha colpito l'asfalto a pochi metri da lui. «Cecchino buono», ha detto ridendo. «Non si comportano come in condizioni normali - spiega il dottor Ceric - e quando saranno adulti ne sentiranno le conseguenze». I più colpiti, comunque, sembrano essere gli adolescenti e le persone anziane. C'è l'insicurezza permanente e c'è l'isolamento, di cui si duole la giornalista Gordana. Per lei il giorno peggiore della guerra è stato quello in cui è stato colpito il telefono. Da più di un mese le linee con l'esterno della capitale non funzionano. Abbandonati, accerchiati, isolati, anche i più forti, sottoposti a bombardamenti costanti, hanno i nervi logorati. «Noi soffriamo più che dei detenuti, perché la nostra prigione è bombardata; noi non conosciamo la durata della pena e il motivo della nostra detenzione», sottolinea il dottor Oruc. Jean-Haptiste Naudet Copyright «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa» > i DI corsa per sfuggire al tiri dei cecchini A Sarajevo la paura moltiplica i casi di paranoia

Persone citate: Liliana Oruc, Oruc

Luoghi citati: Italia, Sarajevo, Vietnam