IN CARCERE LA POESIA E NECESSARIA COME L'ACQUA
Parliamone Parliamone IN CARCERE LA POESIA E' NECESSARIA COME L'ACQUA EE poesie di Gabriele Cagliari, le poesie di Raffaele Cutolo: a tenere insieme, ma solo per un attimo, due persone così incomparabilmente differenti, sono i versi che hanno scritto nelle rispettive celle di due lontane carceri (una poesia di Cutolo è stata pubblicata, due giorni fa, da «Sette» del «Corriere della Sera»). Versi non belli, va detto subito, nell'un caso come nell'altro e, tuttavia, capaci di dire una loro piccola e contraddittoria «verità». Piccola ma così intensa da rendere meno significativo il fatto che l'uno, Cagliari - in ragione di una sofferenza tanto intollerabile da indurlo a darsi la morte - abbia acquistato, agli occhi di chi scrive, una immagine di grande umanità e dignità; mentre l'altro, Cutolo, continua ad apparire irreparabilmente sgradevole. E tuttavia. Tuttavia, se si leggono anche le lettere che accompagnano la poesia di Cutolo (sempre su «Sette»), si avvertono sensazioni contrastanti. Il regime carcerario di quello che fu il capo della Nuova Camorra Organizzata, dopo quasi trent'anni di detenzione, risulta senza tema di smentite, credo decisamente incivile. Basta, a giustificarlo, la consapevolezza, anch'essa incontestabile, delle sofferenze patite dalle vittime (tante) di Raffaele Cutolo? Penso di no, dal momento che - nel nostro ordinamento giuridico - la funzione della pena non è quella di trarre vendetta sui colpevoli. Ma non è questa la sede per sollevare la questione sotto il profilo garantistico (valido, evidentemente, anche per Raffaele Cutolo e per Barbablù). Ciò che qui si vuole sottolineare è la tendenza - irresistibile per chi è recluso ed è capace di tenere una penna in mano - a comunicare, come può, tramite i versi. Non è, certo, una novità: la storia delle prigioni è anche storia di prigionieri che poetano. E neppure è, esclusivamente, la manifestazione dei guasti di un sistema scolastico similumanistico e simil-spiritualistico («Un popolo di santi e di poeti»). D'altra parte, non deve stupire che gli autori di efferati crimini si dilettino in attività tanto delicate: senza ricorrere all'abusatissimo esempio dell'asserita relazione amorosa tra Hitler e i canarini, si pensi alla cospicua (e premiata) produzione poetica di Licio Gelli (che non è propriamente un Paul Celan, per esperienza di vita e sensibilità d'animo). Ma la differenza c'è, ed è pesante come un macigno: le poesie di Gelli sono state scritte a Villa Wanda, quelle di Raffaele Cutolo a Poggioreale e all'Asinara, nel manicomio criminale di Aversa e nel carcere di Baldenich (Belluno). E' questo che attribuisce ai versi di Cutolo quell'accenno di «verità», di cui prima si è detto. E, infatti, le brutte poesie di Cutolo non sono significative in quanto «riscatterebbero» i suoi crimini (figuriamoci!); e nemmeno perché ne mostrerebbero il «lato umano» (ci vuole altro). Quei versi sono interessanti (ben più delle scemenze dette nell'intervista) perché - nella loro povertà espressiva e linguistica - parlano, comunque, di poesia, la richiamano per assenza e negazione, ne valorizzano la possibile funzione, come dire?, «terapeutica». E la gratuità. Dicono, soprattutto, che la poesia, così superflua nel mercato del superfluo, nella ridondanza di parole e di scritti, nell'opulenza verbale e comunicativa in cui viviamo, può ritrovare una sua indispensabilità proprio laddove sembrano altri i «beni di prima necessità»: il cesso, l'acqua per lavare i denti, lo spazio per stare in piedi. Luigi Manconi
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