Solo sul trono di Dio

14 discussione. Gli inediti di Paolo VI: il mestiere di Papa fa paura? Solo, sul trono di Dio «Un peso tremendo. Dà le vertigini» EN'estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale e tremenda. Dà le vertigini». E poche righe dopo: «Niente e nessuno mi è vicino. Devo stare da me, fare da me, conversare con me stesso, deliberare e pensare nel foro intimo della mia coscienza». Parole - personali, intime - scritte da Paolo VI il 5 agosto '63, un mese e mezzo dopo l'elezione a pontefice. Sconforto o sfida con se stesso? Il soglio di San Pietro appare come un trono di solitudine negli inediti di Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano eletto papa nel 1963 e morto nel 1978, ora pubblicati dall'Istituto Paolo VI di Brescia e dei quali ieri l'Unità ha dato un'anticipazione. Sono pagine di solitudine. Ma solitudine rispetto a che cosa? «Credo sia tutto lì, nel non avere altri cui delegare. La solitudine di Paolo VI, come di altri pontefici, era quella di chi, totalmente sereno, deve prendere decisioni per la serenità degli altri», dice monsignor Loris Capovilla, che fu segretario di Giovanni XXIII. E racconta che nel dormiveglia ripeteva: «Questo bisognerà sottoporlo al Papa...». Sembra una battuta, dice, ma non lo è: era l'unico dramma di un Santo Padre: «Siamo abituati ad avere qualcuno più in alto cui delegare un giudizio, una scelta. Appena sveglio diceva: bisogna decidere. E decideva». Ma è un'ansia passeggera o uno spavento più profondo a ispirare Giovanni Battista Montini? Scrive Paolo VI: «Bisogna che mi renda conto della posizione e della funzione, che ormai mi sono proprie, mi caratterizzano, mi rendono inesorabilmente responsabile davanti a Dio, alla Chiesa, all'umanità. La posizione è unica. Vale a dire che mi costituisce in un'estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale è tremenda. Dà le vertigini. Come una statua sopra una guglia; L zi, una persona viva, quale io sono. Niente e nessuno mi è vicino. Devo stare da me, fare da me, conversare con me stesso, deliberare e pensare nel foro intimo della mia coscienza». E più avanti: «Io devo accentuare questa solitudine. Non i devo avere paura, non devo cercare appoggio esteriore, che mi esoneri dal mio dovere, che è quello di volere, di decidere, di assumere ogni responsabilità, di guidare gli altri, anche se ciò sembra illogico e forse assurdo. E soffrire solo. Il colloquio con Dio diventa pieno e incomunicabile». Proprio in quest'ultimo passo, religiosi e storici rileggono il brano di Paolo VI pensando anche ad altri pontefici. L'arcivescovo Pasquale Macchi, segretario di papa Montini, oggi delegato per il santuario di Loreto, firma il commento agli ine¬ diti: «La sua non è la solitudine di chi vive separato dal mondo ma di chi, facendosi carico delle preoccupazioni e dei problemi dell'umanità a cui la Chiesa è chiamata a dare delle risposte, rivive spiritualmente il senso e il peso della sofferenza di Gesù fino a sentire l'angoscia infinita di tale solitudine che esplode nel grido mai sufficientemente meditato: "Signore perché mi hai abbandonato?"». Padre Carlo Cremona, autore di una biografia di Paolo VI (Rusconi editore) afferma: «La solitudine di chi ricopre quel ruolo non è esi¬ stenziale ma funzionale al ruolo. Perdonatemi il paragone: anche Bartali e Coppi erano soli nella volata. Mi riferisco alla responsabilità dell'attimo finale». Aggiunge: «Non dimentichiamo che Montini scrisse quelle parole durante un ritiro spirituale, cioè quando, solo, rifletteva sul ruolo di quella che è, si voglia o no, la prima autorità del mondo». Dunque, destino di chi siede su un solitario trono delle decisioni massime? Sì, dice padre Cremona. E cita Gregorio XVI che chiedeva un biscottino per festeggiare il cin¬ quantennio. Cita Pio XI «che lasciò il Vaticano per andare a San Giovanni» o Pio XE che «uscì ben due volte, per andare al Quirinale a scongiurare la guerra e poi a vedere i sinistrati di San Lorenzo». Anche solitudine fisica, dunque, spezzata prima da Giovanni XXIII, poi da Paolo VI. Papa Luciani non ebbe tempo. Ebbe però il tempo di temere quel ruolo? Con amicizia lo ricorda il cardinale Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino dal 1971 al,1989, nominato presidente della Cei nel '79. Dice: «Era un uomo mitissimo, dolce, con una sen- sibilità commovente. Non penso abbia avuto il tempo di misurare quella sua mitezza con il ruolo che ricopriva». Ma che cos'è questo ruolo? Monsignor Capovilla taglia corto: «Un padre deve prendere decisioni per i suoi figli, magari ribelli, e si sente solo. Per un Papa le decisioni per i figli sono anche grandi direttive morali. La firma la mette lui e la solitudine è lì». Ma non è solitudine da manager: qui non c'è consiglio di arnministrazione, il momento della direttiva etica dipende soltanto dal vertice della piramide. E il vertice, più è profetico più è solo. Papa Roncalli incontrò i familiari di don Primo Mazzolali dopo 10 anni. Disse loro il pontefice: «Vi hanno detto che non gli ho voluto bene, ma non è vero. Lui aveva il passo troppo lungo e noi stentavamo a tenergli dietro. Era il passo dei profeti. E ha sofferto lui e abbiamo sofferto noi». E monsignor Capovilla sottolinea: «La morale era che si doveva camminare insieme, quella che il cardinale Pellegrino insegnò a tutti. Ecco, io credo che anche Paolo VI avesse quel passo lungo e chi avanza più in fretta è più solo». Un ritratto che trova eco nel ricordo del cardinale Anastasio Balestrerò, che di Paolo VI fu amico: «La solitudine di Paolo VI fu espressione della sua statura eccezionale di spirito, di mente, di cuo¬ re. Non era soltanto un fatto di responsabilità. C'era una distanza enorme dalla meschinità dei mortali insieme a una grande capacità di vicinanza ad essi. C'era una grande capacità di contemplazione, di preghiera adorante e supplicante, una sensibilità vibrante per ogni situazione storica e umana». E la solitudine della responsabilità? «Paolo VI sapeva tremare davanti alle decisioni, ma non per questo era indeciso. E in questa sua solitudine, con Dio era sereno». Dio e il mondo che se ne va per la sua strada, Dio e gli uomini cui dare indirizzi. Ecco l'angoscia del «trono solitario». Dice lo storico Sergio Quinzio: «I Papi di oggi sono più soli. Una volta c'era un'altra autorità, l'imperatore o il re, c'erano, per rifarci a questo scritto, altre persone sedute su altre guglie. Ora il pontefice si staglia in una condizione unica». Ecco, allora, una lettura-psicologica del ruolo: «C'è una condizione da affrontare, l'investitura di un potere che si vuole infallibile». Quinzio non si stupisce delle parole di Paolo VI: «Certo, c'era una solitudine, per così dire, controllabile. Era il Papa dell'esperienza diretta, dell'apertura al mondo moderno, con Maritain. Ma il pontefice più solo è Giovanni Paolo n. Mi colpisce la sua discordanza di atteggiamenti. Il pontefice del Terzo Millennio, dell'abbraccio fra le religioni, dei di scorsi su economia e morale... Ep pure lo troviamo su una sponda e poi subito su quella opposta, dalla grande riflessione alla tirata d'o recchi sul problema economico. E' fluttuante, mi pare preso alla gola dall'avanzata del disordine. Questo è segno di solitudine, anche dentro ima Chiesa cambiata. Pedala, con ansia, ma la solitudine può far pedalare a vuoto». Marco Neirotti Monsignor Capovilla ricorda l'angoscia di Giovanni XXIII di cui fu segretario: «Nel dormiveglia ripeteva spesso: "Questo bisognerà sottoporlo al Santo Padre"» a fi < <*r- ^^/^ "A 'A, **** JW / /-^e^ a ^-^ - Monsignor Capovilla. Qui accanto: Paolo VI. A destra in basso: papa Albino Luciani II cardinale Balestrerò e (a sinistra) lo storico Sergio Quinzio. A destra: Karol Wojtyla Sopra, lo scritto autografo di Papa Montini

Luoghi citati: Brescia, Milano, Torino